“Perché non ha urlato?”

La vittimizzazione secondaria nei tribunali e nei giornali

L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica rispetto alla violenza di genere è cresciuta negli ultimi anni, grazie anche a campagne di pressione. C’è però un aspetto ancora poco indagato e conosciuto, che va sotto il nome di “vittimizzazione secondaria”.

di Maddalena Volcan
Mentor: Augusto Goio

Del fenomeno della vittimizzazione secondaria se n’è parlato in uno degli appuntamenti del Festival della violenza illustrata, tenutosi a Bologna dal 25 novembre al 10 dicembre 2023, dove grazie ai contributi di esperte, giornaliste, avvocate e magistrate il fenomeno è stato approfondito in particolare nell’ambito giuridico e dei media.

Cos’è la vittimizzazione secondaria?

La giornalista Giulia Siviero, femminista che scrive per Il Post, ha inquadrato la vittimizzazione secondaria come un’ulteriore violenza su chi l’ha subita, non come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma come risposta di istituzioni ed individui alla vittima, nel momento in cui decide di uscire dal circuito della violenza. Essa ha una radice profonda nella cultura patriarcale e comporta conseguenze non solo in ambito giudiziario o mediatico, ma anche direttamente sulla vittima e sul suo benessere.

Colpevolizzare la vittima (victim blaming) funziona perché va a vantaggio di chi la violenza l’agisce, ha affermato Elena Biaggioni, avvocata penalista. Spostando l’attenzione dall’autore della violenza a chi la violenza l’ha subita, si nasconde insieme al colpevole la violenza, ponendo la vittima stessa al centro dell’attenzione. Alla vittima si chiede un comportamento ideale e di conformarsi a standard di perfezione nei comportamenti, nelle parole e nelle azioni, sia prima che dopo l’episodio di violenza subito. Così vuole il sistema maschilista e patriarcale, che concepisce la donna come silenziosa e confinata in questo ruolo. Chi non rispetta tali canoni diventa automaticamente corresponsabile e meno credibile: ciò fomenta la paura del giudizio e fa crollare la vittima.

La vittimizzazione secondaria rappresenta un problema, poiché favorisce l’occultamento della violenza e accresce la sfiducia nelle istituzioni da parte delle donne. “Il sistema giudiziario deve garantire alle donne il loro diritto all’accesso alla giustizia e alla verità giudiziaria”, ha affermato Biaggioni.

Quali sono gli stereotipi che alimentano la vittimizzazione secondaria?

Il primo stereotipo è il mito dello stupro come atto di sessualità dirompente e inarrestabile. Questo collegamento, ricorrente nei media, ignora completamente la cultura dello stupro, ossia l’insieme di atteggiamenti, credenze, norme sociali e rappresentazioni culturali che contribuiscono a minimizzare, giustificare o addirittura promuovere la violenza sessuale.

Un altro topos ricorrente è la narrazione della bestia e del branco, che Claudia Torrisi, giornalista freelance, ha sottolineato essere evidente nella narrazione dello stupro di gruppo verificatosi a Palermo quest’estate. Dipingere come mostri gli autori della violenza è pericoloso, perché deresponsabilizza tutto il genere maschile, il sistema patriarcale e la cultura dello stupro, facendo ricadere la responsabilità di non essere stuprate sulle donne.

L’immagine della donna vendicativa ed approfittatrice che imbroglia l’uomo è un ulteriore luogo comune. L’esempio portato da Torrisi è quello dello stupro di due modelle da parte di Alberto Genovese nel 2020: Genovese, autore della violenza, è stato descritto come l’uomo di successo, affascinante, fregato dalla donna furba. Questa rappresentazione mette in buona luce la figura del violentatore e mina la credibilità della vittima, colpevole di non aver saputo dire di no e quindi corresponsabile.

Questi sono solo pretesti per non credere alle donne: fin dal primo contatto con le istituzioni, al momento della denuncia alla polizia, e poi in tribunale e nel racconto mediatico le donne non vengono credute. Ciò è dannoso perché disincentiva la denuncia: solo il 27% delle donne che si rivolge ai centri antiviolenza denuncia. È questo il motivo per cui la violenza sessuale e di genere rimane un fenomeno sommerso, ha sottolineato Giulia Nanni, operatrice nella Casa delle Donne di Bologna.

La vittimizzazione secondaria in ambito giuridico

Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano, ha svolto una riflessione sul ruolo della cultura come base su cui si costruiscono le discriminazioni di genere. La cultura dello stupro non si limita ad influenzare la società, ma anche i tribunali e i giornali: per questo è necessario un nuovo modello culturale basato sul rispetto.

Tutt’oggi persistono norme che riflettono pregiudizi antichi nei confronti delle donne, come la norma sulla violenza di genere e sessuale che si concentra sull’aspetto coercitivo, legando la valutazione della violenza alla regolamentazione della sessualità invece che alla lesione del diritto di autodeterminazione della donna. Un altro preconcetto consiste nella necessaria verifica della credibilità della vittima, alimentata da un pregiudizio culturale che associa alle donne una vocazione al mendacio.

Nel corso degli ultimi quindici anni c’è stata un’impetuosa produzione normativa con diversi miglioramenti nel sistema giuridico italiano. Oggi la valutazione della mancanza di consenso è centrale nella condanna della violenza di genere e sessuale. Le leggi non mancano, hanno riconosciuto Fabio Roia e Lucia Russo, procuratrice aggiunta del Tribunale di Bologna: il problema è che questi strumenti non vengono usati, nell’applicazione pratica del principio di legalità.

La necessità di un giudizio imparziale e privo di influenze patriarcali è cruciale nel contrasto della violenza di genere. Occorre riformulare la legislazione, così che non ci siano differenze tra ciò che è scritto nella legge e le sentenze emesse. Per questo, è necessario informare tutti gli operatori delle corrette modalità con cui relazionarsi alle vittime di violenza e segnalare le criticità del sistema per rimediare alla violenza di genere, ha concluso Russo.

La vittimizzazione secondaria nei media

Sebbene la vittimizzazione secondaria sia ancora dominante nei media, negli ultimi anni si assiste ad una reazione crescente da parte dei giornalisti stessi e dell’opinione pubblica di fronte ad articoli discriminatori. Un esempio è quello dell’articolo del quotidiano Il Sole 24 Ore riguardo alla vicenda Genovese, che è stato modificato in seguito alla protesta delle giornaliste della redazione stessa del quotidiano.

La vittimizzazione secondaria si registra spesso su testate giornalistiche nazionali, prive di un dichiarato orientamento politico. La giornalista Siviero ha attribuito questo fenomeno alla mancanza di un attivismo giornalistico sulle questioni di genere: al contrario, il giornalismo italiano fa attivismo per il mantenimento del sistema e l’assenza di sanzioni favorisce questa tendenza.

All’estero c’è un’aperta discussione sulla maniera corretta di fare giornalismo e diversi collettivi giornalistici collaborano con le istituzioni per modificare lo status quo. Alcune indicazioni formulate per una corretta narrazione della violenza di genere sono di collocare la violenza in un sistema strutturale patriarcale e storico, oppure di centrare la narrazione sulla donna e sulla sua esperienza, trasformando l’esperienza personale in una voce politica per il cambiamento. Quest’operazione si è potuta osservare nella comunicazione del dolore personale di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, una delle recenti vittime di femminicidio, e nella trasformazione di questo dolore in un movimento politico.

In conclusione, un cambiamento è possibile?

La Corte europea dei diritti umani, nelle ultime quattro condanne comminate all’Italia per la violazione dei diritti delle donne, ha affermato che il sistema normativo italiano è adeguato: il problema sta quindi nell’applicazione delle norme.

“Bisogna presidiare i luoghi e gli spazi, sia nell’attenzione mediatica, che nel supporto delle vittime nel percorso di uscita dal circolo della violenza”, ha affermato Biaggioni. Bisogna garantire sostegno alle donne, sia socialmente che istituzionalmente. Come ha sottolineato Nanni, bisogna far emergere il fenomeno sommerso della violenza sulle donne. I giornali devono diventare più attivi contro la violenza di genere e sostenere le battaglie per una corretta comunicazione.

Elsa Antonioni, operatrice del centro antiviolenza Casa delle Donne di Bologna ha concluso sottolineando la necessità di un cambiamento sociale radicale e di un impegno collettivo: “Il tema della violenza sulle donne è un problema degli uomini e non delle donne, ma siccome il problema ricade sulle donne, è anche un problema delle donne.”

Per saperne di più

Consigliamo la lettura dell’articolo “Quando la vittima diventa imputato” che spiega sotto altri punti di vista il fenomeno della vittimizzazione secondaria e gli articoli “Non tutti gli uomini” e “È ora di urlare basta, è ora di fare rumore” che trattano sempre il tema della violenza di genere.