I labirinti della decisione in tempi di guerra

Fino a che punto i leader politici sono effettivamente liberi di agire e decidere lo scoppio di una guerra?

Di Anna Rossi
Mentor: Paulo Lima

“Perché scoppiano le guerre?” è una delle domande fondamentali della storia dell’uomo, oggetto di innumerevoli riflessioni filosofiche, studi accademici, ma anche favole e miti. Nell’età contemporanea però si è sempre più assistito al trend che vede l’assegnazione della responsabilità bellica ai leader politici, sempre più al centro dei riflettori dell’opinione pubblica a seguito della globalizzazione e dell’avvento di Internet. 

La responsabilità dei leader

Di fatto, i leader sono gli attori politici che in ultima istanza prendono la decisione di andare in guerra oppure no, ma il più delle volte, quando si trovano in tali situazioni, questi trovano difficile agire secondo perfetta razionalità a causa di numerosi fattori.

L’ottimismo può essere una debolezza fatale per un leader; infatti, spesso questi ritengono, a torto, che, se scoppiasse una guerra, la loro parte vincerebbe facilmente e in poco tempo. Ma da dove vengono queste convinzioni? 

Un aumento repentino della potenza militare di un Paese può portare i leader rispettivi ad essere più propensi alla guerra (come nel caso del successo dei test nucleari pakistani del ’98, e lo scoppio della guerra tra India e Pakistan più tardi nello stesso anno). Allo stesso tempo le stesse capacità che rendono carismatico un leader (ad esempio instillare fiducia negli altri e sedurli per raggiungere obiettivi) possono portarlo a sovrastimare in momenti di crisi le proprie capacità militari. Inoltre, come rilevato dagli esperimenti di Dominic D.P. Johnson, il genere influisce sulla creazione d’illusioni positive facendo in modo che i soggetti tendenzialmente più propensi a confidence in challenging situations (più spesso uomini che donne), siano anche più propensi a ricorrere alla guerra per vincere. 

Eccesso di sicurezza

Tuttavia, non è ancora ben chiaro quale componente sia responsabile dell’eccesso di sicurezza dei soggetti. Altri studi si concentrano invece su come le convinzioni dei vari leader influenzino la loro percezione di “opportunità-minacce”. Tali convinzioni sono frutto di uno sviluppo individuale legato a: principi sviluppati a seguito ad eventi vissuti o osservati – ad esempio il comportamento di George H. W. Bush nella guerra in Iraq del ’90-’91, chiaramente influenzato dall’”Analogia di Monaco” e dalla guerra in Vietnam – e personalità nate prima dell’entrata in carica da corredo genetico, socializzazione in gioventù e ad inizio carriera – ad esempio, Dinesh Sharma, sottolinea come l’infanzia in Indonesia e l’identità razziale di Barack Obama l’abbiano reso un presidente “globale”.

Molto pericolose perché collegate con rapide escalation dei conflitti, sono le percezioni sbagliate dei principali attori politici. Tali percezioni si consolidano in momenti di crisi e portano alla convinzione che il rischio di conflitto sia sempre più reale e crescente, facendo sì che i vari attori a sbaglino nel scegliere tra le “opzioni di policy”. 

A proposito di ciò, il politologo Ole R. Holsti, nel 1972, studiò come la crisi diplomatica del luglio-agosto del 1914 causò la Prima Guerra mondiale. Secondo lui lo scoppio era legato al fatto che, in quel periodo ristretto, l’aumento spropositato della comunicazione tra UK, Francia, Russia e Germania comportò l’acuirsi dello stress generale e condusse all’erronea valutazione del numero delle proprie possibilità di ogni attore; tutti credevano che la responsabilità di terminare la crisi non spettasse a loro e che non potessero agire in alcun modo per smorzare la tensione, portando di fatto ad un’escalation ed allo scontro armato.

Anche i bias motivati possono pesare molto nelle percezioni degli attori, per vengono portati a proteggere e promuovere specifiche preferenze ed interessi, nonché a non modificare le proprie convinzioni in seguito all’ottenimento di nuove informazioni.

Groupthinking

Un altro fattore fondamentale per capire il ruolo degli individui nello scoppio delle guerre è il fenomeno del “groupthinking” studiato e teorizzato per la prima volta da Irvin J. Janis nel 1982. Janis lo definisce come una “modalità di relazione basata sulla ricerca di consenso che, quando ha luogo in un gruppo interno e coeso, tende a prevalere su una realistica valutazione del corso d’azione alternativo”; permettendo alle pressioni del gruppo di provocare un deterioramento dell’efficienza mentale e del giudizio morale. In altre parole, gli individui hanno il bisogno psicologico di essere apprezzati ed accettati dal gruppo di colleghi e questo porta a gravi errori d’analisi, in situazioni critiche, tanto nei leader quanto nei consiglieri politici.

Classico esempio di questa dinamica è la disfatta americana della Baia dei Porci nel ’61. Il neoeletto presidente americano John Kennedy non annullò tale operazione militare (consistente nel tentativo di destituire il leader cubano Fidel Castro), precedentemente approvata dall’ex presidente Eisenhower, per evitare di indebolire la propria reputazione qualora la questione fosse venuta allo scoperto. Parallelamente, i suoi consiglieri, pur nutrendo riserve riguardo l’operazione, non le espressero perché gli sembrava che molti appoggiassero la decisione e, per non rischiare la loro posizione nel gruppo d’élite, scelsero il silenzio.

Per concludere, il fenomeno della guerra si presenta estremamente complesso per natura, e i molteplici fattori che influenzano le azioni dei singoli decisori rendono difficile attribuire la responsabilità ad un unico attore, anche se di rilievo. Pertanto, è importante evitare conclusioni affrettate e semplicistiche.