La libertà d’informazione è onestà, spiega Raffaele Crocco
L’Italia è al 46° posto nella classifica di Reporters without borders che misura la libertà di stampa in 180 Paesi del mondo. Significa che la nostra democrazia è la penultima di quel gruppo di Stati in cui la possibilità di informare e informarsi è “fairly good”, abbastanza buona.I fattori che determinano questa situazione sono molteplici. Come nel resto d’Europa, anche nella Penisola il 2018 ha assistito alla moltiplicazione delle accuse denigranti mosse ai giornalisti dai vertici istituzionali. Leader politici, più o meno investiti di una carica ufficiale, si sono impegnati a screditare i giornalisti non proprio condiscendenti accusandoli di corruzione, di tendenziosità troppo spinta, di mentire. Famose e ben documentate sono le diatribe tra Movimento 5 Stelle e Il Foglio, le accuse urlate a squarciagola dai grillini contro i cronisti che cercano di capire i motivi delle loro decisioni, le invettive della Lega contro la presunta disinformazione che affligge l’Italia.
Alle aggressioni verbali si uniscono quelle fisiche, per lo più perpetrate da un altro efficace agente di erosione della libertà di stampa: il crimine organizzato. Attualmente, dieci giornalisti italiani vivono stabilmente sotto scorta. Centinaia denunciano episodi d’irruzione nelle loro abitazioni, furti di materiale da loro raccolto o prodotto, pestaggi, intimidazioni di vario genere.
A ciò bisogna aggiungere i tentativi di controllo dei canali di comunicazione attraverso lo strumento economico: quando i finanziamenti diventano troppo vincolanti o troppo necessari, i finanziatori sono in grado di esercitare una notevole influenza sui contenuti e sulle forme narrative dell’informazione prodotta dai “loro” mezzi di dialogo col pubblico.
In ogni caso, la censura diretta o indotta della libertà di stampa (italiana e statunitense, nigeriana, coreana, neozelandese…) è il cancro in fase terminale della democrazia. La dipendenza dei giornalisti da fattori diversi dal loro lavoro e dalla necessità di farlo eticamente è causa di instabilità sociale a livello nazionale e internazionale.
Anche di questi argomenti Raffaele Crocco mi parla durante la nostra intervista per l’uscita dell’ottava edizione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo. In quest’occasione, mi spiega che l’essenza del giornalismo e del giornalista di qualità è solo una: l’onestà.
Durante la serata “Informazione per battere l’indifferenza”, ha più volte ribadito che l’informazione è assolutamente strumentale alla fine dei conflitti: solo educandosi alla guerra, ai suoi meccanismi e alle sue cause, la comunità umana può maturare la consapevolezza che essa sia sempre evitabile. Ha poi spesso affermato che l’informazione, intesa come conoscenza della realtà, è essenziale per portare avanti i processi di riconciliazione che stabiliscono la fine di uno scontro violento – poiché solo attraverso di essa le parti belligeranti possono riconoscere e ammettere le loro responsabilità e riappacificarsi con sé stesse e con gli altri. Ora le chiedo di approfondire la relazione tra informazione (ossia la libertà di informare, di essere informati e di esprimersi) e la costruzione di un sistema di pace.
L’informazione è fondamentale per la pace. Un sistema di pace si costruisce su alcuni mattoni fondamentali – il lavoro, la salute, l’accesso al cibo… Il diritto all’informazione, nel doppio senso di creare e ricevere notizie sul mondo, si aggiunge a questi.
È una libertà che bisogna cominciare a esercitare sin da piccoli, perché è necessario educarsi all’informazione e questo percorso è lungo e faticoso. Informarsi è faticoso: bisogna abituarsi quanto prima a quest’idea. Informarsi è faticoso perché significa scegliere individualmente le proprie fonti, decidere quali sono credibili secondo criteri personali – io credo sia fondamentale mantenere la propria individualità anche in questo contesto, perché non credo nel pensiero unico, nella possibilità che vi sia un’informazione sovrana. Anche perché nessuna informazione è assolutamente corretta e giusta: l’informazione è sempre di parte, perché chi la produce è sempre schierato. Ma deve essere onestamente di parte, nel senso che chi la produce non deve travisare i fatti contingenti: se un telefono è nero, è e deve rimanere nero. Poi, si può cercare di ragionare sul perché ed è qui che si aprono gli spazi dell’individualità…
Dicevo, informarsi è faticoso. Scegliere le proprie fonti, verificarle, modificarle sono azioni che comportano impegno personale. Ma sono tutti sforzi che ognuno di noi deve fare se vuole contribuire alla salute della democrazia, che è anch’essa prerequisito della pace.
Come dicevo prima, è essenziale che si comprenda sin da piccoli l’importanza di informarsi. Come Atlante, organizziamo molti incontri nelle scuole: ne teniamo 50 o 60 all’anno e veniamo in contatto con ogni genere di studente, dalle elementari all’università. Una cosa che cerchiamo di far capire sempre è che ci sono passaggi fondamentali per garantirsi la libertà, passaggi che vanno conosciuti e compresi – altrimenti esercitare i propri diritti diventa come imparare a guidare la macchina senza conoscere il codice della strada: prima o poi si va a sbattere.
Ma già le scuole dovrebbero offrire questo tipo di insegnamento. Ovvero, il sistema scolastico italiano dovrebbe realizzare che il primo lavoro che deve tornare a fare è formare dei cittadini. Se formiamo dei cittadini consapevoli dei loro diritti e della loro libertà di decidere autonomamente cosa pensare, allora già facciamo un buon lavoro a livello sociale ed educhiamo all’uso corretto delle informazioni.
In particolare, bisognerebbe insegnare cose elementari ma fondamentali come la Costituzione, la Dichiarazione universale dei diritti della persona (noi dell’Atlante la chiamiamo così per evitare discriminazioni di genere) e altri documenti simili. Bisognerebbe tornare a mettere la geografia e la storia al centro dei percorsi formativi. La geografia è infatti essenziale per capire il mondo… Non a caso abbiamo fatto un atlante. Al di là del piacere personale o meno (amo gli atlanti perché sono un viaggiatore), uno strumento simile è fondamentale perché permette di contestualizzare i fatti. La stessa cosa vale per la storia.
Cominciare a rendere la scuola un luogo di formazione prima dei cittadini e poi dei lavoratori: questo è il passaggio cruciale. Perché il professionista è l’effetto del cittadino, non la causa. Noi abbiamo creato un sistema in cui la cittadinanza si attribuisce sulla base del ruolo sociale di ognuno: è un paradosso in cui un idraulico miliardario vale meno di un dottorino. L’esempio è un po’ banale, ma serve a descrivere bene la situazione. Noi concediamo la cittadinanza su base sbagliata – non perché l’idraulico miliardario debba valere di più, ma perché debbono valere tutti allo stesso modo. Dobbiamo prima formare i cittadini, quindi i professionisti. Non capisco poi perché un idraulico non debba sapere di filosofia o diritto, farebbe forse il suo lavoro molto meglio.
Detto questo, il secondo passaggio che dobbiamo fare è lavorare sul mondo dell’informazione. In Italia ci sono grossi problemi non dovuti solo alle questioni che sono dichiarate ufficialmente: i monopoli, il controllo continuo e soffocante da parte delle istituzioni, lo spettro di Berlusconi che per anni ha aleggiato sul Paese – questi sono effetti, non cause.
Il problema è che non esiste un’editoria libera, perché l’editoria è tutta controllata da gruppi finanziari o politici che hanno altri interessi. L’editoria pura ha un sacco di difetti, ma ha un pregio di grande valore: fa informazione strumentalmente utile al territorio.
Mi spiego meglio. Sono un editore, vengo in Trentino, voglio aprire un giornale e vedo che qui i giornali sono tutti schierati col centro-sinistra: per ragioni di mercato farò un giornale di centro-destra. Io editore vado a Verona e vedo che tutti i giornali sono schierati con il centro-destra: farò un giornale di centro-sinistra. In questo modo, un editore libero riequilibra la situazione sul territorio.
Al contrario, un gruppo finanziario o politico ha solo interessi legati al cuore vero della propria attività: i giornali e l’informazione diventano organi collaterali funzionali a quel cuore. Per cui, se io ho giornali ma di fatto faccio il palazzinaro, è ovvio che non parlerò mai di temi quali l’abuso edilizio. La Stampa degli Agnelli non ha mai parlato male della FIAT… Voglio dire, il controllo dell’informazione può essere una situazione normale, ma di certo non è desiderabile.
Altra questione spinosa è l’accesso alla professione: oggi per diventare giornalisti bisogna essere ricchi. Sta diventando un mestiere di censo, perché per fare il giornalista devo fare l’università, poi la Scuola di Specializzazione che costa tra i 15 e i 30 mila euro per due anni, devo probabilmente trasferirmi nella città dove sta la Scuola e lì mantenermi. E una volta diventato professionista, non sono nessuno, sono disoccupato. Allora o ho la famiglia che mi mantiene, oppure faccio la fame per anni pagato a cinque euro lordi al pezzo. Non è una condizione sostenibile. E sta creando un discrimine non indifferente tra gli aspiranti giornalisti.
Una volta non era così. Prima si entrava in redazione come praticanti, pagati con uno stipendio che permetteva di mantenere una famiglia. Poi si faceva l’esame di Stato e si diventava giornalisti a tutti gli effetti. A quel punto, il giornale che aveva investito nella formazione del professionista lo tratteneva presso di sé – per rientrare nei costi: il giovane manteneva il proprio lavoro, cambiava solo contratto. L’accesso alla professione era automatico.
Senza considerare il praticantato in redazione era un metodo di selezione rigido ma piuttosto sicuro, perché i direttori degli organi di stampa testavano il talento degli aspiranti giornalisti in modo immediato e li allenavano duramente sul campo. Oggi, le varie Scuole non selezionano davvero: è sufficiente un buon livello di cultura generale per passare i test.
Tutto ciò ha causato un abbassamento della qualità dell’informazione italiana, mentre la categoria dei giornalisti sta diventando ricattabilissima. L’onestà intellettuale di chi produce informazione sta svanendo perché sta svanendo ciò che garantisce ai giornalisti la libertà di scrittura, ossia l’indipendenza economica. Così muore la libertà di stampa nel nostro Paese. Questo deve far riflettere rispetto alle demagogie dei tempi.
D’altronde, l’Assemblea costituente aveva capito benissimo che la capacità di mantenersi col proprio lavoro è presupposto della libertà. E se tale presupposto si realizzasse nel mondo dell’informazione, allora sarebbe solo questione di colpire duramente chi (nonostante l’indipendenza economica) si lasciasse corrompere.
Torno adesso ai cittadini, perché è fondamentale che comprendano che l’informazione costa. Se vogliamo un’informazione libera dobbiamo tassarci autonomamente, dobbiamo creare fondi assistenziali all’informazione in modo che i giornalisti possano campare attraverso il loro mestiere. Se non succede, se i cittadini non decidono di farlo succedere… nessuna libertà di stampa.
Vorrei prendere spunto dalle sue considerazioni sull’onestà dell’informazione per riflettere sui mezzi di comunicazione. Perché il dilagare di notizie disoneste è dipeso anche dalla maggiore facilità con cui oggi si può accedere a strumenti che parlano alle masse. Però, come lei stesso ha più volte ribadito in parecchi suoi interventi, è necessario utilizzare anche nuovi canali per diffondere informazioni. E lei non si è mai riferito solo ai social media. Ecco, quali potrebbero essere nuovi modi per creare consapevolezza, dialogo, confronto tra di noi e con la realtà?
In questa prospettiva, tutto è mezzo di comunicazione. Sono per utilizzare qualsiasi cosa, dalla pittura al cinema alla scrittura…
Ho un progetto che vorrei realizzare l’anno prossimo, qui in Trentino, in qualche modo. Vorrei fare informazione in piazza con una compagnia errante, una compagnia d’arte di giornalisti che girino le piazze raccontando le notizie della giornata come fossero a teatro e con un rapporto diretto col pubblico.
Vede, bisogna inventarsi o individuare modi per emozionare tutti, perché ognuno di noi ha propri strumenti emotivi, è coinvolto ed emozionato da esperienze e sensazioni diverse… Bisogna quindi allargare la prospettiva al massimo.
La nostra associazione [46 Parallelo], ad esempio, ha cominciato col progetto dell’Atlante, che rimane il nostro architrave. Ma da lì abbiamo preso il via per organizzare altro: gli incontri, le mostre fotografiche grosse e importanti e impegnative, il sito internet, i profili social, la produzione di due film… C’è uno spettacolo teatrale [Eisbolè] ricavato dall’Atlante che sta girando l’Italia. Abbiamo cercato di occupare tutti gli spazi.
Sono poi convinto – forse perché ho una formazione artistica avendo studiato Arti visive al DAMS – che la pittura sia un grande strumento di formazione e di comprensione non solo del presente ma anche del futuro. Nei dipinti si riflette la direzione nella quale stiamo andando, si riflette cosa accadrà.
Torno a dire, tutto quello che c’è va usato… Anche l’incisione sui muri e i graffiti. Qualunque cosa sia utile, facciamola! L’informazione deve essere permanente, continua, costante, di grande qualità e corretta. Non deve essere la verità, perché la verità assoluta non esiste, ma deve essere corretta, onesta. Se una tazzina è bianca, deve rimanere bianca. Dopodiché, si può parlare della tazzina in tanti modi diversi. A seconda della prospettiva dalla quale la guarda, infatti, ognuno descriverebbe la medesima tazzina a proprio modo. Cioè ognuno direbbe la propria verità sulla tazzina… Inevitabile che ci siano differenze, ma ognuno starebbe dicendo onestamente quello che vede. Ed è questo quello che conta.
Dichiarare la propria posizione (rispetto alla tazzina come rispetto ad altro) è cruciale: si tratta del criterio in base al quale chi si informa valuta quali fonti scegliere. Questa decisione, ribadisco, deve essere una responsabilità individuale. E assumersi la responsabilità di essere cittadini è ciò che garantisce la democrazia, la quale si preserva quindi se si continua a insegnare alle persone a ragionare individualmente. Attenzione, non con individualismo: con collettivismo, ma individualmente.
Lei non teme di affermare chiaramente la sua posizione rispetto a tematiche delicate: dichiara il suo ateismo integrale, la sua formazione marxista, la sua parzialità nel presentare onestamente i fatti di cui vuole informare il suo pubblico. Quanto è bene, a questo punto, che il giornalista si esponga in questo modo?
È fondamentale che accada. Perché, lo torno a dire, non esiste un giornalismo neutro. Il giornalista che si pensa e dice neutrale è l’equivalente di chi dice “non ho nulla contro gli ebrei, ho anche un amico ebreo” e poi li abbandona alle camere a gas, gli ebrei.
Il giornalista deve dichiarare, o far capire in qualche modo, da dove viene, chi è. Così chi legge, sa. Credo sia giusto che chi legge Raffaele Crocco sappia chi è, da dove viene, la sua storia, perché la pensa in un determinato modo. Il diritto alla contestazione resta, ma è essenziale che il giornalista non dia modo di essere contestato nei fatti, nei dati, nel loro racconto. Sulle idee c’è giustamente la massima libertà di discussione e disaccordo.
A questo proposito, il giornalismo onesto al di là della parzialità è quello fatto dal giornalista consapevole che tutti hanno diritto a esprimersi. È la prima nozione che chi intende produrre informazione di qualità deve capire. Ed è un punto sul quale non cederò mai. Io ritengo, ad esempio, che Casa Pound abbia il diritto di parlare… Perché se derogassi su questo, dovrei derogare anche su altro. Come chi proclama di essere impegnato nella difesa dei diritti civili, inclusi quelli degli omosessuali, e poi soprassiede al terribile trattamento degli omosessuali a Cuba – dove le persone attratte dallo stesso loro sesso sono incarcerate.
Quindi, o è sempre o è mai: non si deve andare in contraddizione sulla libertà, è qualcosa su cui non si può scherzare.