È storia di tutti i giorni

Flixbus, tratta Venezia-Stoccarda. Il pullman verde mela sfreccia racchiuso tra le frastagliose cime delle Alpi, passando accanto a quieti villaggi di montagna. Il viaggio è tranquillo e la mente si rilassa alla vista di tale apparente assopita realtà. Dopo aver compiuto l’ultima tappa italiana, Bolzano, si prosegue verso il confine che scompone la terra in due stati rigorosamente separati, Italia e Austria, ma uniti, quasi per dolce amara ironia, dal monumentale Ponte Europa, che con i suoi 657 metri di lunghezza e 190 di altezza, rende il percorso agli occasionali e abituali viaggiatori il più simile ad una cara linea retta.
Sono seduto accanto a passeggeri che parlano tedesco ma anche inglese; ai fini della storia rendo nota la presenza di 3 ragazzi che, per le sfumature della loro carnagione, mi fanno pensare che possano provenire da zone limitrofe all’India.
Ad arrivare in Austria ci si mette poco. Io sono emozionato, un po’ in ansia per il viaggio. Da sempre spostarmi mi provoca  un po’ di stress. Io, alla frontiera, sono tranquillo. Il mio documento non può che essere in regola: lo guarderanno di sfuggita, per dovuta prassi. L’attenzione si concentra invece sugli altri passeggeri, su chi la faccia da Europeo non la ha. La frontiera austriaca la attraversiamo tutti, nessuno di noi rimane fermo sul confine ad aspettare nuove notizie per il suo percorso di viaggio.
La Germania è più distante. Però quando ci arriviamo sono sollevato: sono più tranquillo di prima e il viaggio procede bene. Manca sempre meno a Stoccarda.Nuova frontiera, nuovo posto di blocco. Questa volta salgono sul pullman in sei. Sembrano molto più professionali dei poliziotti austriaci. Due di loro si fermano in cima alle due scale d’accesso, gli altri quatto compiono le debite verifiche. Altri circondano il bus. Io sono tranquillo, come prima. Penso agli altri passeggeri e a questo punto,  immedesimandomi, credo lo siano anche loro: la frontiera austriaca è passata, i documenti sono in regola. Invece questa volta sembra esserci un intoppo. Uno dei tre ragazzi precedentemente citati, camicetta rosa, estiva, il viso un po’ accaldato, deglutendo, segue i  ragazzi della “polizei”, che lo invitano a raccogliere i suoi bagagli e a scendere dal bus per ulteriori controlli. Il passaporto è a posto. I problemi riguardano probabilmente il permesso di soggiorno.
Da finestrino riesco ad intravedere la scena: lo zaino gli viene preso di mano con poca gentilezza. Viene invitato a seguire quello che sembra il più giovane della squadra dietro al bus per la perquisizione, in modo – penso- da non creare un teatrino per casuali spettatori curiosi. Non so che accada là dietro, sta di fatto che il ragazzo viene caricato su di un furgoncino e portato via. Le nostre strade si dividono. Le strade dei tre amici si dividono. Uno dei due rimasti a bordo ha gli occhi sbarrati, cerca di intravedere l’amico, ma i vetri del furgoncino sono oscurati. Chissà cosa non ci fosse di giusto nei documenti dell’uomo fermato. Ripartiamo anche noi. Il viaggio degli altri due ragazzi sembra essersi concluso in una cittadina  della Germania del sud. Chissà se aspetteranno l’amico. Non penso. Credo che questa evenienza rientri nel calcolo del rischio.
È storia di tutti i giorni. Storia di responsabilità statali: ci sono stati che non si preoccupano di permessi di soggiorno non in regola e lasciano passare al prossimo il dovere di gestire il fenomeno; un peso in meno, una responsabilità in meno. Ma dopotutto: paese che vai, usanze che trovi.
Storia di distanze: chi riesce a compierle e chi invece viene bloccato a metà. Storia di libertà: c’è chi può e c’è chi non ha il permesso in regola. E chi non ha, rimane effettivamente senza niente.