Sustainability is the new black: uno sguardo all’industria della moda
di Veronica Wrobel e Giulia De Nadai
traduzione di Cristina Dalla Torre
Lo sapevate che per produrre una maglietta di cotone ci vogliono gli stessi litri d’acqua che noi beviamo in due anni e mezzo? Anche chi non segue l’ultima moda è vittima di questo settore. Oggi abbiamo avuto l’occasione di ascoltare i rappresentanti di alcuni dei più grandi marchi di moda, come Stefan Seidel (Puma), Kim Hellstorm (H&M) e Pamela Betty (Burberry) durante la Conferenza ONU sul Clima (COP24) di Katowice in Polonia.
A causa delle attuali sfide poste dal cambiamento climatico, 43 marchi leader hanno deciso di stipulare una Carta dell’industria della moda per l’Azione per il Clima in risposta al cambiamento climatico. Durante questo evento, è stato sottolineato il ruolo centrale e a doppio taglio che hanno gli stakeholder della moda. Da un lato, infatti, la moda è responsabile del 5% delle emissioni di gas serra (più dei voli internazionali e delle spedizioni marittime). Ecco perché, con la Carta, sono stati fissati alcuni obiettivi comuni come ad esempio: una riduzione del 30% delle emissioni entro il 2030 e l’obiettivo di emissioni nette-zero entro il 2050. Dall’altro lato, l’industria della moda può ancora influenzare positivamente le scelte dei consumatori.
La Carta per l’Azione per il Clima si basa su un approccio collaborativo, in cui si creano interdipendenze e partenariati tra vari attori e settori all’interno e all’esterno dell’industria della moda. Tuttavia, come ha detto il responsabile della sostenibilità aziendale di Puma, la storia di alcuni dei più grandi marchi ci ha dimostrato che le promesse non sempre sono state mantenute e, per questo motivo, il nostro ambiente ha subito gli effetti negativi di queste promesse mancate.
Una domanda che è stata posta durante l’evento riguardava la possibilità di ridurre la quantità di capi prodotti e, invece, di aumentarne la qualità. Non è un segreto che molte famose aziende di moda (tanto per citare un nome, Burberry) hanno bruciato e continuano a bruciare i loro prodotti invenduti, inquinando l’ambiente non solo una volta producendo il capo, ma due volte, sprecandolo ed infine distruggendolo.
Al di là dello sforzo di ridurre la produzione di capi, abbiamo bisogno di un atteggiamento più sostenibile nei confronti delle nostre abitudini di acquisto: potremmo prevenire la creazione di rifiuti diminuendo la domanda di nuovi articoli e privilegiando i negozi di seconda mano. Queste nuove realtà non sono ancora molto diffuse e popolari nelle nostre città e, quando abbiamo la fortuna di trovarne una, il più delle volte gli articoli venduti sono costosi, come se fossero appena usciti dalla fabbrica o fossero di alta moda. Perciò per l’individuo è più semplice andare in un negozio di moda low cost e comprare abiti di bassa qualità, ma che sono allo stesso tempo eleganti.
La soluzione a questa pratica dispendiosa sta, come nella maggior parte dei casi, nel conoscere. Un consumatore più istruito e consapevole è solitamente in grado di fare scelte migliori e quindi di evitare costi inutili, sia per il portafoglio che per l’ambiente. Infatti, se gli acquirenti sono ben informati e consapevoli dei costi economici, sociali e ambientali legati alla produzione e al ciclo di vita degli articoli di moda, l’intera industria sarà sicuramente ridimensionata.
Dopo l’evento tenutosi a COP24, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare e parlare con Vanessa Perez Cirera, vice responsabile del Climate&Energy Practice di WWF International. Le abbiamo posto alcune domande sulle azioni concrete che l’organizzazione sta attuando in materia. Ha citato 4 programmi in diversi campi: il primo è “Science-based targets” , un’iniziativa che fornisce alle aziende percorsi e metodologie di sviluppo in linea con il target del 1,5° C suggerito dal rapporto IPCC.
L’obiettivo del programma è quello di ridurre le emissioni di gas serra, passando ad un’economia a basse emissioni di carbonio o, idealmente, basata sulle energie rinnovabili. Finora vi hanno aderito 500 imprese. In relazione al progetto appena citato è stato sviluppato un portale per diffondere strategie e tecnologie innovative per il clima che contribuirebbero a raggiungere obiettivi prefissati.
Sapendo che non è sempre facile passare ad una produzione più sostenibile, il WWF ha costruito un’Alleanza per l’energia rinnovabile (REBA) , una rete per collegare produttori e acquirenti di energia rinnovabile. Per i più ambiziosi, il WWF ha lanciato un programma di leadership climatica, The Climate Savers , con l’intenzione di influenzare l’industria attraverso attori del cambiamento che hanno deciso di fare un passo oltre gli obiettivi prefissati. Ormai 28 aziende globali hanno raccolto la sfida e sono diventate partner del WWF, dando l’esempio di una crescita sostenibile.
Di pari passo con l’iniziativa sul lato dell’offerta, è necessario anche un cambiamento nel comportamento dei consumatori. Come ha ricordato l’onorevole Cirera, gli individui dovrebbero consumare meno, ma anche essere disposti a pagare di più per inviare un messaggio chiaro ai produttori: sustainability is the new black. In questo modo, le aziende sarebbero incentivate a creare un’economia circolare che tracci l’intero ciclo di vita di ciò che producono. Il cambiamento deve essere bilaterale, ma è il consumatore che deve fare il primo passo e dimostrare la sua volontà.