Mobilità umana ai tempi dei cambiamenti climatici

di Elisa Calliari, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

Si è chiuso ieri, martedì 11 dicembre, a Marrakech la Conferenza Intergovernativa che ha portato all’approvazione del Global Compact on Migration (GCM) da parte di 164 paesi. Si tratta di un accordo non vincolante promosso dalle Nazioni Unite all’indomani della crisi dei profughi siriani e che stabilisce 23 principi per una migrazione “sicura, ordinata e regolare”. Si propone di favorire una migliore gestione del fenomeno migratorio dalla scala locale a quella globale, tenendo conto della necessità di ridurre i rischi e le vulnerabilità ai quali i migranti sono esposti durante le diverse fasi del proprio viaggio.
Il GCM dedica un intero paragrafo a “disastri naturali, effetti avversi dei cambiamenti climatici e degrado ambientale” come fattori scatenanti e strutturali che inducono le persone a lasciare i propri paesi di origine. Invita a rafforzare “un’analisi congiunta e lo scambio di informazioni per meglio mappare, capire, prevedere e gestire i fenomeni migratori indotti da disastri naturali e dagli impatti dei cambiamenti climatici, sviluppare strategie di adattamento e resilienza”, integrare le strategie di preparazione ai disastri con considerazioni sugli sfollamenti, armonizzare e sviluppare approcci e meccanismi a livello sub-regionale e regionale per affrontare le vulnerabilità delle persone colpite dai disastri”.

Un forte impulso alla discussione sul nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni è venuto anche dal lavoro svolto in questi anni nell’ambito della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). La mobilità umana è stata riconosciuta come una forma di adattamento nel 2008 alla Conferenza ONU sul Clima di Cancún.

Negli anni successivi il tema è stato progressivamente connesso alla discussione sulle Perdite e Danni associate ai cambiamenti climatici (Loss&Damage) ed è diventato uno specifico focus del piano di lavoro del Comitato Esecutivo del Meccanismo di Varsavia su Loss&Damage (WIM). L’Accordo di Parigi ha poi creato all’interno del WIM una specifica task force su dislocamento le cui raccomandazioni sono state approvate proprio nei giorni scorsi alla COP24.

Queste ultime si basano su tre pilastri: pianificazione, consultazione e coordinamento. Il primo invita i singoli paesi ad elaborare leggi e strategie per rafforzare la preparazione, la programmazione e le misure di emergenza per gestire gli sfollamenti in modo sicuro. Il secondo richiama l’UNFCCC a favorire ricerca e analisi su migrazioni interne ed internazionali innescate dai cambiamenti climatici, mentre il terzo richiede di stimolare una maggiore collaborazione tra le varie agenzie dell’ONU e altri portatori di interesse per capire come agire concretamente.

Il punto che rimane ancora in sospeso, tuttavia, è il tipo di protezione internazionale che potrebbe essere concessa a coloro che, sempre più spesso, vengono indicati come migranti o sfollati climatici. In realtà, non esiste una definizione legale accettata internazionalmente per questi ultimi e spesso vengono ricondotti al concetto di “migranti ambientali”.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) definisce i migranti ambientali come persone o gruppi che, per effetto di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente in cui vivono e che influenzano negativamente la loro vita o condizioni di vita, devono o scelgono di lasciare il proprio territorio temporaneamente o permanentemente. Individuare però il peso relativo dei cambiamenti climatici rispetto ad altri fattori che possono determinare la scelta di migrare, inclusi elementi sociali, politici, demografici ed economici, rimane ad oggi una sfida molto difficile se non impossibile.