La prima COP non la scorderò mai. Riflessioni a caldo di un’esordiente

Tornata da poche ore dalla COP 27, non posso fare a meno di scrivere di getto quello che mi frulla per la testa riguardo a questa straordinaria esperienza.

di Jessica Cuel

 Nonostante le ore di formazione, le letture approfondite e la preparazione psicologica, nulla ti può preparare al vortice di esperienze e di emozioni che ti può dare una prima COP, soprattutto se i tuoi ultimi mesi sono stati caratterizzati da una routine tutta trentina di casa-lavoro-amici.

Mi sono iscritta a questo progetto senza aspettative troppo definite, ma sapendo di non potermi perdere un’occasione così importante come essere letteralmente nel luogo e nel tempo dove si prendono decisioni che determineranno il futuro dell’umanità.  

Mi sono preparata ad una settimana intensa dal punto di vista fisico, emotivo ed intellettuale. Durante la preparazione al progetto, e nella prima settimana di COP abbiamo elaborato una divisione dei compiti, una schedule degli eventi che volevamo seguire, ma quasi nulla è andato come previsto, e devo dire, forse, per fortuna.

 Una giornata può sembrare una settimana, tra lunghi viaggi in navetta, interviste, collegamenti video con l’Italia. Puoi anche avere trovato un posticino tranquillo (cosa rara!) ed aver finalmente cominciato a scrivere l’articolo sulla finanza climatica che ti riprometti di scrivere dall’inizio della COP, ma poi arriva un messaggio sulla chat di gruppo che dice “mi sa che sta per succedere qualcosa di grosso alla plenaria Ramses!” (già, i nomi delle stanze hanno quasi tutti nomi di faraoni), mollare tutto e correre a vedere che succede, per poi uscirne ancora più confusa di prima.

C’è una parte della COP un po’ in stile EXPO, dedicata ai padiglioni dei vari paesi dell’UNFCCC o organizzazioni intergovernative, come il WHO, la World Bank, l’Adaptation Fund. Per una sfortunata (o forse no) coincidenza, il padiglione italiano era molto vicino alla novità di quest’anno dell’area padiglioni: il “Childern and Youth pavillion”, che oltre ad avere il grande merito di distribuire caffè a qualsiasi ora, nel tardo pomeriggio si animava di canti e balli, disturbando gli eventi dei padiglioni circostanti, e probabilmente attirando a sé gli osservatori indecisi se seguire un evento, sugli obiettivi globali di adattamento o se dichiarare “chiusa” la giornata lavorativa a unirsi alle danze.

Ho imparato che alla COP, almeno da osservatori, si segue la corrente. L’esperienza più potente di questa COP 27, almeno dal mio punto di vista, è arrivata per caso. Giovedì 17 novembre, all’ingresso della COP, ognuno con il proprio programma del giorno da seguire, ci siamo imbatutti in una protesta di organizzazioni femministe, che affermava a gran voce il bisogno di includere i diritti delle donne nella nostra concezione di giustizia ambientale. Lì, il nostro accompagnatore Roberto Barbiero ha avvistato Maria Christina Kolo, un’attivista malgascia che da anni è il suo mito. Non ci siamo fatti perdere l’occasione per una piccola intervista, e abbiamo saputo da lei che da lì a poco si sarebbe tenuta la Peoples’ plenary, la plenaria delle organizzazioni per una giustizia ambientale intersezionale, che tenga conto di problematiche legate al genere, all’età, delle disabilità, dei diritti dei lavoratori e degli ecosistemi. L’abbiamo seguita, ed abbiamo fatto bene. Durante quella mattinata, alla plenaria e alla manifestazione che ne è seguita, ci siamo davvero sentiti parte di qualcosa di grande.

Mi sono resa conto che oltre che da negoziati, ministri, obiettivi da definire, side events e diplomazia, la COP è fatta prima di tutto di persone. Persone da ogni angolo del mondo con storie, esperienze e vissuti diversi. Persone che corrono in ogni dove, che si conoscono, che stringono legami, che dormono, che piangono. Ho visto più di una persona piangere durante la COP; in particolare Teresa Anderson,  rappresentante della sezione della giustizia climatica di Action Aid, ritrovatasi all’ultimo giorno di COP a ribadire che le negoziazioni su un paragrafo possono determinare la condanna a morte per intere comunità, o al contrario, speranza per un futuro migliore. Persone in giacca e cravatta, sfinite, che dormono sui divanetti delle computer rooms, persone che si vedono ad ogni COP da anni, si salutano fugacemente, ripromettendosi di vedersi per progettare qualcosa insieme, come ogni anno, che magari questa è la volta buona.

Provenienti dal nord e dal sud del mondo, con addosso un arcobaleno di colori, con backgound diversi, le  persone presenti alla People’s plenary volevano la stessa cosa: la giustizia ambientale, che altro non vuol dire che poter sperare in  un futuro per le proprie comunità, possibilmente un futuro migliore. Una delle parole che è risuonata più spesso è stata “solidarietà”, solidarietà tra paesi, tra culture e tra movimenti.

Sembra tutto così ovvio e così facile mentre sei circondato da una plenaria che canta all’ uninsono “el pueblo unido jamas sera vencido” e “power to the people”. Purtroppo non lo è, gli interessi in gioco sono troppo potenti, e spesso le persone con grandi ideali hanno le ali tarpate. Quel momento però, lo terrò a mente ogni volta che avrò l’impulso di gettare la spugna.

Nonostante fosse vietato nominare (leggi accusare) “paesi, aziende o individui”, i relatori della People’s plenary non hanno certo dimenticato dove ci trovavamo. Un attivista egiziano, che ha avuto il grandissimo coraggio di esporsi davanti al mondo, ha presieduto l’intera assemblea, e ha letto una lettera della sorella di Alaa Abd-el Fattah, l’ormai celebra attivista imprigionato dal regime egiziano per aver avuto il coraggio di combattere per la giustizia in uno stato di polizia, che ringraziava per la solidarietà dimostrata da molti attivisti presenti alla COP, e chiedeva a tutti di non dimenticarlo una volta tornati a casa.

Mi fermo quì, ma ci sono tantissime altre cose da raccontare, riguardo ai risultati di questa COP, alla visibilissima presenza di greenwashing e ai problemi organizzativi, e lo faremo. Tornata da poche ore da un’esperienza così forte, con stanchezza e adrenalina ancora in corpo, voglio ringraziare di cuore i miei compagni di avventura, i nostri favolosi accompagnatori, tutta l’associazione Viração e Jangada e le persone straordinarie conosciute in questa settimana, o anche solo ammirate da lontano.