Il futuro del Pianeta nelle mani dei giovani. Intervista a Carlo Petrini

La nostra salute dipende dal Pianeta in cui viviamo. È per questo che le scelte quotidiane hanno una grande responsabilità. Mai come ora le nuove generazioni hanno il compito di prendere coscienza della forza di queste azioni. Azioni che possono portare a una rigenerazione ecologica solo attraverso il dialogo intergenerazionale e culturale.

Di Angela Nardelli

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Carlo Petrini – fondatore dell’associazione Slow Food, ideatore della rete internazionale di Terra Madre e autore di “Terra Futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – ha trascorso gran parte della sua vita cercando di promuovere attenzione e cura verso il nostro Pianeta. Lo ha fatto attraverso le armi della scrittura e dell’attivismo, ma soprattutto attraverso il duro lavoro nella ricerca di un dialogo tra società, istituzioni, culture, generazioni. Durante il secondo tempo del 69° Trento Film Festival lo abbiamo intervistato, cercando di concentrare la nostra chiacchierata sul grande obiettivo di Slow Food, sull’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.

Nel ciclo di incontri con Papa Francesco – dai quali poi è nata la pubblicazione “Terra futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – scaturisce la forza delle azioni umane quotidiane e comunitarie. Azioni che possono influenzare in positivo e in negativo il benessere del nostro Pianeta. Che ruolo hanno le scelte alimentari e le azioni ad esse connesse nel mantenimento e nella cura ambientale?

Da oltre 30 anni il movimento Slow Food rivendica l’idea del cibo come centro della nostra esistenza. Se oggi la multidisciplinarietà legata al cibo (parlare di alimentazione vuol dire richiamare l’antropologia, la storia, l’economia, la genetica, la biologia etc.) è un’asserzione che cerca di permeare sempre più all’interno della nostra cultura, posso assicurare che sul finire del secolo scorso così non era; anzi, il cibo era addirittura totalmente estraneo al dibattito politico. Questo mi è sempre sembrato irragionevole, soprattutto perché la nostra stessa vita ci è data in quanto noi quotidianamente mangiamo; e dunque, più di qualsiasi altro argomento, il cibo merita di essere trattato con molta attenzione. 

Ecco che, insieme all’associazione che ho fondato, siamo arrivati a sostenere che mangiare è un atto politico. Ogni singolo individuo attraverso le sue scelte alimentari non influenza solo il sistema produttivo, ma anche le società, le economie e i territori ad esso connesso. Proprio per questo, viene da sé che i nostri comportamenti quotidiani, per quanto ci possano sembrare abitudini di poca rilevanza, possono avere un impatto determinante per il nostro benessere, per la salute di tutti gli esseri viventi e per la prosperità della nostra Terra Madre.

Quindi, se da un lato aver portato all’interno dei palazzi del potere anche argomentazioni inerenti al cibo è stato un passo importante, ora è necessario accrescere in ognuno di noi la consapevolezza che tutti i veri cambiamenti, e dunque anche la rivoluzione ecologica di cui necessitiamo, partono dal basso e quindi dalla società civile.  
Dico di più, ora è necessario che le persone che hanno già sviluppato una forte sensibilità verso le tematiche ecologiche facciano gruppo e muovano azioni comuni volte a sovvertire il paradigma economico imperante, fondato su consumismo e competizione. 

In che modo l’associazione Slow Food si impegna per promuovere un’alimentazione “buona, pulita e giusta per tutti”?

La principale caratteristica del nostro movimento è che ogni azione e ogni pensiero vengono promulgati nel pieno rispetto dei territori, delle società e delle culture in cui operiamo.
Mi spiego meglio, Slow Food è un’associazione che dalla seconda metà degli anni Ottanta ha accettato la sfida di diffondere a livello internazionale la lotta all’omologazione e alla standardizzazione, ovvero a tutti quei processi sterili basati esclusivamente sul profitto economico che il modello capitalistico stava cercando di propagare ad un mondo sempre più globalizzato.

Il nostro impegno quindi, che mira primariamente a difendere la biodiversità in tutte le sue forme (naturale, agroalimentare, sociale, culturale), è altamente diversificato a seconda dei territori. Sarebbe da stolti concentrarsi su di un unico modello adattabile in ogni area del pianeta: questo modo di ragionare, oltre ad essere una logica altamente invasiva e ai limiti del colonialismo, porterebbe esclusivamente ad una perdita di biodiversità, e quindi a conseguenze catastrofiche per comunità ed ecosistemi.

Ecco che le iniziative e i progetti delle nostre condotte italiane non possono essere riportate nelle comunità dell’Africa subsahariana; è necessario che i promotori delle iniziative siano donne e uomini che vivono da vicino il territorio, che conoscono le esigenze delle comunità e che sappiano valorizzare al meglio le peculiarità di ogni regione.

L’educazione assume un ruolo fondamentale in questo contesto. Cosa dovrebbe cambiare o essere migliorato nell’educazione odierna?

L’educazione è il pilastro fondamentale su cui si deve basare questa rigenerazione ecologica. Una rivoluzione che non riguarda solo i sistemi produttivi e i sistemi economici, ma che deve senza ombra di dubbio rigenerare radicalmente anche il nostro modo di pensare. Allora a chi se non ai giovani, forti della loro fresca e rapida capacità di apprendimento, dobbiamo lasciare il messaggio che tutto è fortemente correlato e che la nostra salute dipende da quella del Pianeta in cui viviamo? Chi dobbiamo esortare, consci degli errori commessi finora, a sovvertire un paradigma che vede il profitto come una variabile di benessere e che non riconosce alcun valore ai beni relazionali e ai beni comuni, se non i futuri cittadini?

C’è però da fare molta attenzione, in quanto il processo educativo passa primariamente dal buon esempio. Se le generazioni più mature non sono disposte a segnare la strada a quelle che verranno, quest’ultime si troveranno disorientate in un mondo che non sarà più in grado di generare salubrità e benessere per tutti.
Anche in questo caso, la soluzione è come sempre il dialogo. Un dialogo intergenerazionale in grado di confrontare la forza impulsiva, l’energia e la creatività dei giovani con l’esperienza, la saggezza e le suggestioni dei più “anziani”.

Inoltre sono fortemente convinto che, affinché si voglia diffondere un’educazione efficiente e strumentale all’elaborazione autonoma di pensieri critici e più consapevoli, il dialogo deve anche instaurarsi tra saperi scientifici, accademici, e saperi tradizionali, popolari.
Questo è il modello educativo che necessitiamo, un approccio che mi piace definire olistico, in grado di coniugare discipline umanistiche a materie scientifiche, e che dal 2004, con la fondazione dell’Università di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo cerchiamo di applicare.

Ritiene che il movimento ambientalista giovanile Fridays For Future possa portare dei risultati concreti? In che modo la voce dei giovani può essere ascoltata dalle istituzioni?

Voglio partire da una semplice riflessione: il futuro non è di certo di Carlo Petrini. Il futuro è dei giovani, e se le cose non cambino in maniera sostanziale, quando i diciottenni di oggi avranno la mia età, vivranno in un mondo più che mai inquinato, poco salubre e con la fertilità dei terreni estremamente compromessa. Per non parlare degli ecosistemi marini, i quali già oggi si trovano ad un punto di non ritorno.

Ecco che i movimenti dei giovani sono di primaria importanza per il tessuto sociale di oggi e per il futuro di domani. Necessitiamo di questi gruppi che non si fermano solo alla propaganda o all’attivismo sterile, ma data l’energia e l’imperturbabilità propria delle giovani generazioni, sono disposti a mettersi in prima linea nel concretizzare buone opere e azioni virtuose sia in campo sociale, sia in campo ambientale.

Io credo che arrivati a questo punto le istituzioni non possano far altro che ascoltare la voce dei giovani e appoggiarli nelle loro lotte.
Vorrei dire a questi nuovi rappresentanti della società civile che il tempo è dalla loro parte e che tra qualche anno saranno loro ad occupare ruoli istituzionali. Ma non per questo devono accomodarsi e aspettare il loro turno, anzi. Condivisione e cooperazione saranno i valori di cui avvalersi per portare avanti le loro sfide e proprio per questo tengo a dare loro due suggestioni. Le comunità del futuro dovranno per forza di cose essere basate sull’austera anarchia e sull’intelligenza affettiva.

Con austera anarchia intendo la capacità di prendere decisioni autonome, consapevoli e volte al bene comune. A differenza del rigido modello organizzativo che ha caratterizzato la nostra società da più di un secolo a questa parte, nelle comunità l’impegno e le progettualità nascono dalla cooperazione e dal confronto; sto parlando di una nuova organizzazione fluida che si modifica a seconda delle esigenze e dell’apporto che i singoli possono offrire in un dato momento.


Il tutto regge solo ed esclusivamente se alla base delle comunità c’è l’intelligenza affettiva, cioè quel sentimento che lega ogni singolo individuo ad una comunità di destino con cui condivide un percorso comune e che per questo è in grado di garantire il rispetto di ogni individualità. In altre parole, l’identificazione in un progetto comune genera una spontanea rete di relazioni e di vicinanze, che non può essere scalfita dall’esterno. Un collante molto più efficace di qualsiasi adesione formale o regola imposta dall’alto.

I disastri climatici estremi, la mancanza di risorse, la distruzione degli ecosistemi, lo sfruttamento del terreno e il watergrabbing stanno causando molte problematiche soprattutto alle persone più svantaggiate, costrette a migrare e abbandonare le proprie abitazioni. A livello globale, perché secondo lei il grido d’aiuto delle persone è poco ascoltato e messo in secondo piano? Pensa che la logica del profitto stia sovrastando la giustizia sociale?

Come dicevo, un paradigma basato solo su consumo e profitto e che non lascia spazio al valore dei beni relazionali e dei beni comuni, oltre ad essere disastroso e pericoloso è anche perdente. Questo è più che mai evidente, lo stanno dimostrando gli effetti sugli ecosistemi ma anche quelli sulla nostra stessa salute: a mio modo di vedere hanno ragione quegli scienziati che sostengono che anche questa terribile pandemia è una risposta della natura al depauperamento e alla sofferenza che le stiamo causando da decenni.

Se noi non riusciamo a ricucire al più presto i forti legami con gli ecosistemi in cui viviamo, è ormai sotto gli occhi di tutti che anche a livello sociale vivremo dei grandi disagi.
Risulta necessario quindi saper cogliere quanti più insegnamenti possibili da questo ultimo anno e mezzo. Proprio come l’epidemia, usciremo dalla crisi sociale, e quindi anche da quella economica, solo quando tutti saremo immunizzati da un modello che ha fatto di consumi bulimici e competitività la sua essenza. Per far sì che questo avvenga cooperazione e condivisione giocano ancora una volta un ruolo fondamentale: non possiamo più permetterci che nessuno venga lasciato indietro.

A questo proposito, concludo riprendendo dalla Laudato Si’ uno dei concetti fondamentali e allo stesso tempo più rivoluzionari dell’enciclica di Papa Francesco: “oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”.
Ecco che in tema di esempi, in tema di educazione all’ecologia e in tema di trovare un faro da seguire in questo particolare momento storico, Bergoglio risulta essere la figura più attenta, sensibile, propositiva e influente a livello globale.
Consiglio a tutti dunque di leggere le sue encicliche e di far propri gli insegnamenti rigenerativi che questo straordinario Pontefice vuole infondere per curare la nostra società.