I marmi del Partenone fra passato e presente, prima parte
Storia e ultimi sviluppi di una disputa bicentenaria
Che cos’hanno in comune un lord inglese d’inizio Ottocento, George Clooney e un’esplosione avvenuta nel 1687? Scopriamolo in questo articolo, che ripercorre le vicende attorno alla più annosa disputa che la storia dell’arte abbia mai conosciuto: quella sui marmi del Partenone.
di Davide Berteotti
Mentor: Monica Malfatti
Nella foto di copertina: le sculture della parte sinistra del frontone orientale del Partenone esposte al British Museum di Londra
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Per “Marmi del Partenone” s’intendono le opere che la bottega dello scultore e architetto greco Fidia realizza attorno al 432 a.C. per il fregio, il frontone e le metope del tempio della Vergine Atena sull’acropoli di Atene. Il nome “Partenone” deriva proprio dall’epiteto della dea parthenos, ovvero “vergine”: Atena era infatti – tra le altre cose – la divinità protettrice delle fanciulle, nonché della città stessa, a lei consacrata.
Dopo il periodo classico, l’architettura subisce molte trasformazioni: nel 500 d.C. diventa una chiesa bizantina, nel 1205 una chiesa cattolica, nei primi anni ’60 del Quattrocento svolge la funzione di una moschea dopo la conquista della Grecia ad opera dell’impero ottomano, nel 1460. Nel 1687, infine, il Partenone diventa addirittura una polveriera: durante l’assedio veneziano di Atene, un’esplosione fa saltare tutta la sua copertura – nell’800 infatti sopravviveva soltanto metà della sua decorazione scultorea originaria.
È proprio in quest’epoca che comincia la travagliata vicenda dei marmi: nel luglio 1801 l’ambasciatore britannico a Costantinopoli Lord Elgin – grande appassionato di antichità – chiede un permesso alle autorità ottomane per far montare dei ponteggi e fare degli scavi per disegnare, copiare e realizzare alcuni calchi in gesso delle sculture del Partenone e di altri edifici dell’acropoli. L’autorizzazione concede anche a Lord Elgin di portare via “qualche pezzo di pietra con iscrizioni e figure”. Evidentemente però il diplomatico interpreta per eccesso la quantità accordata: rimuove infatti metà delle opere, che trasporta in nave nel gennaio del 1802 fino alla sua casa di campagna in Scozia.
Quest’operazione gli costa ovviamente una fortuna e lo fa andare in bancarotta, così nel 1816 il parlamento britannico acquista i marmi per conto del British Museum, istituzione statale.
Nel 1833 i Greci ottengono l’indipendenza dagli Ottomani e già due anni più tardi richiedono ufficialmente al Regno Unito il ritorno delle opere: la prima richiesta di molte altre che seguiranno, formali ed informali, e che continuano ancora oggi.
Gli argomenti a sfavore della restituzione addotti dal British Museum (d’ora in poi B.M.) si appellano alla legalità dell’operazione di Lord Elgin e all’impossibilità di deaccesionare, ovvero di cedere, le collezioni statali. Ma entrambe le motivazioni hanno punti deboli.
Innanzitutto non si è conservato il documento originale dell’autorizzazione al conte: esiste solamente una traduzione in italiano, comprata dal museo nel 2006. Rimane tuttavia il fatto che l’autorità che concesse l’asportazione dei beni nel 1801 è ben diversa dal governo greco che dal 1835 ne chiede la restituzione: gli Ottomani non avevano interesse a tutelare l’integrità di un bene culturale a cui non si sentivano legati, appartenente a una popolazione assoggettata; per i Greci invece il Partenone rappresenta ancora oggi un elemento di identificazione culturale.
In merito alla legge britannica sull’inalienabilità delle collezioni statali – ovvero l’impossibilità di cederle – la soluzione sarebbe semplice: cambiare la legge. I continui rimpalli di responsabilità tra il museo e il parlamento non fanno però che rinviare il problema.
Il principale argomento a favore della restituzione è ovviamente la ricomposizione dell’insieme scultoreo, non sul Partenone, ma nel Nuovo Museo dell’Acropoli di Atene, inaugurato nel 2009. Per ragioni conservative infatti le sculture sono state rimosse dal tempio e ospitate nel vicino museo ai piedi del monte (300 metri in linea d’aria), la cui architettura dialoga col contesto di provenienza dei reperti: il piano superiore dell’edificio è infatti ruotato rispetto alla facciata, in modo che da lì si possa vedere direttamente l’acropoli.
Con la ristrutturazione del vecchio museo la Grecia ha fatto cadere una delle carte del B.M., che vantava migliori condizioni conservative per le opere come motivazione per tenersele. In questo modo invece Atene ha voluto comunicare al mondo che è pronta in qualsiasi momento per accogliere i marmi, seguendo i più moderni standard museali.
Anche l’allestimento della “galleria del Partenone” sembra programmaticamente pensato in modo da evidenziare i vuoti lasciati dai marmi londinesi.
La questione dei marmi del Partenone ha avuto anche picchi di attenzione mediatica, come quando per esempio nel 2013 il governo greco di Antōnīs Samaras incaricò l’avvocata Amal Clooney di affiancarlo legalmente nella richiesta di restituzione, per poi decidere due anni più tardi di desistere, temendo che se la causa fosse stata persa, il dibattito sarebbe finito una volta per tutte.
Nel 2014, l’attore e regista – nonché marito dell’avvocata – George Clooney, durante una conferenza stampa di presentazione del suo film Monuments Men, coglie l’occasione per spezzare una lancia in favore della Grecia.
Attualmente dunque la gran parte dei marmi del Partenone giunti fino a noi (in numero dimezzato rispetto alla decorazione originale) stanno per metà a Londra e per metà ad Atene, ma altri frammenti – in particolare del fregio – sono al Louvre, a Copenaghen, Vienna, Heidelberg e ai Musei Vaticani.
Uno degli ultimi sviluppi fattivi di tutta la vicenda si ha il 2 gennaio 2022, quando il Museo archeologico regionale “Salinas” di Palermo trasferisce un frammento del gruppo scultoreo del frontone est (un piede della dea Artemide) al Museo dell’Acropoli, nell’ambito di un accordo quadriennale di scambio con 2 reperti da Atene: una statua di Atena del V sec. a.C. e un’anfora dell’VIII sec. a.C., esposte a Palermo. Il frammento siciliano venne acquisito nei primi anni dell’Ottocento dal console inglese (ancora una volta!) Robert Fagan in circostanze non del tutto chiarite e venne poi comprato – assieme a parte della sua collezione archeologica – dal Regio Museo dell’Università di Palermo nel 1820 (quindi comunque prima dell’indipendenza greca). In ogni caso, questo prestito a lungo termine è più un gesto simbolico che la vera soluzione agognata dalla Grecia: il trasferimento di proprietà dei marmi.
Per saperne di più
Leggete l’articolo di Jenny Cazzola che approfondisce la vicenda nel momento attuale.