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Il cibo che fa male al clima

Bisogna cambiare il sistema alimentare per affrontare la sfida dei cambiamenti climatici.

Di Roberto Barbiero, Fisico e climatologo. Coordinatore del Forum Trentino sui Cambiamenti Climatici.

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Garantire l’accesso al cibo ad un numero sempre crescente di persone sembra essere una sfida che possa essere vinta in futuro grazie all’agricoltura intensiva e industriale, la sola in grado di garantire il necessario aumento della produzione alimentare.

Questa è la narrazione ricorrente del sistema di produzione alimentare dominante che risponde ad un modello economico e di consumo che non vuole essere messo in discussione. Un modello che tuttavia si trova sempre più a fare i conti con la sua insostenibilità ambientale e sociale e che oggi deve affrontare anche la sfida dei cambiamenti climatici.

Il consumo delle risorse naturali da parte dell’uomo ha raggiunto livelli decisamente insostenibili. Si stima che il 75% dell’ambiente terrestre e il 66% degli ambienti marini sia stato “gravemente modificato fino ad oggi dalle azioni umane prevalentemente dovute all’agricoltura, alla produzione di carne e alla pesca intensiva (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), 2019).

Le attività umane interessano circa il 70% del territorio terrestre libero da ghiacci e di questo ben il 37% è usato per allevamenti intensivi, il 22% per lo sfruttamento di foreste e il 12% per terreni coltivati.

La pressione che il territorio subisce dalle attività umane, in particolare per la produzione alimentare, è oggi aggravata dai cambiamenti climatici. Il sistema di produzione alimentare gioca un ruolo fondamentale nel concorrere come causa antropica dei cambiamenti climatici e allo stesso tempo si trova ad esserne vittima subendone gli effetti in ogni parte del mondo. Anche per questo l’Intergovernamental Panel on Climate Change ha ritenuto opportuno dedicare un rapporto speciale al tema della relazione tra clima, territorio e cibo (Climate change and land, IPCC Special Report, 2019). L’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2°C, previsto dall’Accordo sul Clima di Parigi, può essere raggiunto solamente riducendo le emissioni di gas a effetto serra prodotte da tutti i settori, compresi quelli che riguardano il territorio e il cibo.

Si stima che il 23% delle emissioni globali di gas serra derivino da agricoltura, silvicoltura e altri uso del suolo. Se si considera tuttavia il sistema alimentare nel suo ciclo completo, dall’agricoltura e dall’allevamento, alla conservazione, al trasporto, all’imballaggio, alla lavorazione, al dettaglio, al consumo e ai rifiuti, si scopre che ben il 37% delle emissioni totali sono attribuibili al sistema alimentare.

In questo conteggio appare incredibile il ruolo assunto dallo spreco alimentare pro capite, cioè di quel cibo acquistato che non viene consumato ma buttato da ciascuno di noi, che è aumentato del 40% dal 1960 e che corrisponde attualmente al 25-30% del cibo prodotto, che contribuisce a sua volta all’8–10% delle emissioni di gas serra del sistema alimentare.

Scopriamo così di vivere una serie di paradossi. Si spinge la produzione alimentare con la chimica e inquinando terreni e acque e una buona parte di ciò che si produce viene gettata. Tutto ciò mentre a livello mondiale 821 milioni di persone sono denutrite (1 su 10) mentre 2 miliardi sono invece affette da obesità (2,5 su 10).

L’agricoltura intenstiva contribuisce all’emergenza climatica. Photo by Michal Janek on Unsplash

Cambiare abitudini alimentari diventa così un imperativo non solo per aiutare il clima ma per permettere anche di ridurre la pressione sulle risorse, contribuendo allo sradicamento della povertà e al miglioramento delle condizioni di salute e di igiene delle stesse persone.

I cambiamenti climatici determinano inoltre impatti sul sistema di produzione alimentare specie in contesti vulnerabili e impoveriti laddove cioè non ci sono strumenti adeguati per garantire l’accesso al cibo.

Si prevede che i raccolti diminuiranno con l’aumento delle temperature, soprattutto nelle regioni tropicali e semi-tropicali. Molto probabilmente l’aridità aumenterà in alcune zone dell’Asia meridionale, centrale e orientale, e dell’Africa occidentale, dove risiede circa la metà delle popolazioni più vulnerabili, con gravi rischi per la sicurezza alimentare e conseguente aumento dei fenomeni migratori.

Anche i territori di montagna dell’area alpina si trovano a dover affrontare importanti conseguenze legate all’aumento della temperatura, della frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, alla modifica del ciclo idrico con maggiori eventi di piogge estreme e siccità. Sono infatti accertati impatti sull’agricoltura come ad esempio l’aumento del periodo di crescita di alcune colture, l’anticipo delle epoche di semina e di raccolta e dello sviluppo fenologico, il prematuro riavvio del periodo vegetativo, la modificazione dei ritmi stagionali, la diminuzione della produttività e della qualità delle produzioni, lo spostamento degli areali di produzione verso nord e in quota, la diminuzione delle risorse idriche disponibili e la variazione della diffusione di fitopatie ed infestanti.

Molte sono le strategie che il mondo contadino ha a disposizione per reagire ai cambiamenti climatici come ad esempio la necessità di diversificare la produzione e limitare le monocolture, abbandonare tecniche convenzionali per introdurre metodi biologici e biodinamici in grado di garantire il recupero di terreni fertili e vitali, la flessibilità di sistemi produttivi capaci di rispondere adattandosi ai cambiamenti climatici e rendendosi indipendenti dalle esigenze imposte dal mercato.

Per accompagnare questi cambiamenti occorre tuttavia un profondo cambiamento del comportamento dei consumatori che deve passare necessariamente attraverso la riduzione degli sprechi alimentari, la riduzione del consumo di carne, che consentirebbe di rallentare il dramma della deforestazione e di dirottare la produzione di cereali e legumi verso il consumo umano, la scelta di consumare prodotti locali e a km0, la scelta di privilegiare prodotti di stagione e prodotti biologici, la diffusione dell’autoproduzione.

Si tratta di perseguire un modello in grado di garantire la sostenibilità dell’ambiente, di favorire la giustizia sociale e in definitiva di migliorare sensibilmente la qualità di vita di ciascuno.

Cambiando il nostro modo di produrre cibo e di mangiare abbiamo quindi solo da guadagnarci. Se modifiche sostanziali non ne sono state ancora fatte occorre smontare pezzo a pezzo la narrazione dominante del modello economico che ancora sostiene l’attuale sistema di produzione alimentare.