Il caso del carbone alla COP26

Un’analisi sul ruolo fondamentale del carbone come causa dei cambiamenti climatici e i punti critici dell’accordo sul carbone raggiunto alla COP26.

Di Enrico Chiogna

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L’accordo sul carbone raggiunto alla COP26 rappresenta l’inizio di un lungo percorso negoziale per l’eliminazione graduale del peggiore dei combustibili fossili. Nonostante ciò, questo accordo risulta zoppo in partenza per la diserzione di quattro dei più importanti consumatori e produttori di carbone: Cina, Usa, India e Australia.

Ripercorriamo dunque i motivi dell’importanza e i punti critici di questo accordo analizzando il fondamentale ruolo del carbone come causa dei cambiamenti climatici

LA NOTIZIA

La notizia di oggi può sembrare incoraggiante: come riportano varie testate giornalistiche internazionali e alcune indiscrezioni raccolte nei corridoi della Conferenza, i delegati di più di 40 paesi presenti alla COP26 di Glasgow hanno raggiunto un’intesa per la graduale eliminazione del carbone come fonte di energia fossile dai loro mix energetici entro il 2030 per i paesi sviluppati e il 2040 per le economie in via di sviluppo. Fin qui tutto bene, si potrebbe addirittura gridare al miracolo dati i precedenti, non fosse che i principali produttori e consumatori di carbone, notabilmente Cina, India, Stati Uniti e Australia, hanno deciso di smarcarsi da questa intesa.

L’IMPUTATO

Il carbone ha avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo del mondo così come lo conosciamo in Occidente: la Prima Rivoluzione Industriale inglese della fine del XVIII secolo, uno dei principali punti di rottura della storia umana, fu trainata, dall’utilizzo del carbone come combustibile per la generazione dell’energia meccanica. Le innovazioni di questo periodo, che si nutrivano delle nere pietre frutto della sedimentazione dei giganteschi alberi del Carbonifero (nomen omen!), promettevano inattese e mirabolanti possibilità di sostituzione per il lavoro umano. Furono dunque sfruttate.
Nel corso del tempo l’utilizzo dei combustibili fossili ha permesso all’umanità di godere di condizioni materiali di vita molto migliori di quelle dei suoi antenati. Per questo, dallo scoppio della Rivoluzione Industriale, la fascinazione dell’essere umano per il carbone non ha mostrato alcun limite per almeno 200 anni.

Nonostante le innovazioni tecnologiche e la scoperta di nuove fonti di energia, a partire dall’oro nero del XX secolo e proseguendo poi con lo sviluppo di tecnologie in grado di sfruttare fonti di energia a basse emissioni di carbonio a cavallo tra il XX e il XXI secolo, il carbone attualmente rappresenta più di un quarto della produzione energetica globale ed è ancora la principale fonte per la produzione di energia elettrica in termini relativi. La graduale eliminazione del carbone appare un obiettivo ancora tremendamente lontano anche se, in termini assoluti, sembra che si sia raggiunto un plateau nell’ultimo decennio grazie alla lenta assunzione di consapevolezza sul suo ruolo nella produzione di gas climalteranti.

GLI EFFETTI DEL CARBONE SUL CLIMA

Il carbone è la fonte di energia più dannosa per il clima e per la salute umana, non solo considerando le emissioni di anidride carbonica, che – a parità di produzione energetica – sono 164 volte più alte dell’energia solare (che risulta pure più economica). Infatti, si stima che la produzione di energia elettrica dal carbone di un TWh -Terawatt-ora, ovvero quell’unità di misura dell’energia elettrica che trovate nella bolletta della luce, moltiplicata per un miliardo, e che rappresenta il consumo medio annuale di energia elettrica di 27,000 cittadini europei, generi 1230 volte più morti premature rispetto all’energia solare e 350 volte più morti premature alla tanto vituperata energia nucleare. Queste stime considerano sia le morti generate da incidenti nelle varie fasi di produzione dell’energia, che le morti generate dall’inquinamento atmosferico prodotto, che sono prevalenti nel caso del carbone.
Se consideriamo poi le emissioni totali di anidride carbonica, il principale gas climalterante negli ultimi 170 anni, il carbone è certamente responsabile della maggioranza relativa di esse, dato il suo uso estensivo e continuativo nell’arco di due secoli e la sua alta intensità di carbonio.

LA SFIDA

Ça va sans dire che i tentativi per ridurre il suo utilizzo, visti gli eventi lati negativi e la disponibilità di alternative, sono stati molteplici ma quasi sempre hanno ottenuto scarsi risultati: l’affidamento a piani nazionali determinata dalla scarsa coordinazione internazionale e il lobbismo delle industrie del carbone nei principali paesi produttori – si veda ad esempio capitale l’Australia, che ha enormi potenzialità nella produzione di energia solare ma risulta bloccata nel circolo vizioso del carbone dalle pressioni politiche delle lobby – hanno portato a sviluppi lenti e scarsamente significativi. 
Nessuno di essi, inoltre, è stato mai motivato da questioni ecologiche o etiche ma principalmente da grigie valutazioni economicistiche che ci stanno portando sull’orlo della catastrofe. Paradossalmente, da 10 anni le rinnovabili sono le fonti di energia più economiche per la produzione di elettricità e stanno finalmente riuscendo a guadagnare terreno rispetto ai combustibili fossili, nonostante le imprese attive nel settore fossile ricevano migliaia di miliardi di dollari ogni anno per garantire una produzione continua di energia (cosa non fattibile, ad esempio, con l’energia solare e eolica), soffocando il pianeta con la CO2 che producono.

LE CONSIDERAZIONI

Le COP non hanno mai brillato per l’efficienza dei suoi risultati ed è importante sottolineare il fatto che per la prima volta venga firmato un accordo internazionale per l’eliminazione graduale del carbone che mette sul tavolo delle negoziazioni una questione fondamentale e complessa, data l’irresistibile fascinazione dell’uomo per quella pietra nera ed economica che tanto ha inquinato ed ucciso.

Risulta però impossibile non essere fortemente critici con gli attori che hanno di fatto affossato questo accordo, dato che esso non comprende i principali produttori e utilizzatori di carbone (ognuno dei quali avrebbe comunque larghissimo spazio di manovra per appoggiarsi su altre fonti di energia rinnovabili), e con la scelta delle parole, dato che non sono previsti obiettivi vincolanti.

Quindi, pur essendo quantomeno una base di partenza, l’accordo manca di sostanza e di linea operativa. Per ora, fattualmente, questo accordo è carta straccia. I motivi di speranza comunque esistono: pochi giorni fa i paesi del G20 hanno definito un accordo per eliminare gli investimenti esteri alle industrie del carbone (accettato anche dalla Cina) e la larga partecipazione di economie emergenti all’accordo di Glasgow potrebbe indicare la loro intenzione di basare il loro sviluppo su basi diverse rispetto a quello occidentale, che nella sua opulenza ha finito per intossicare l’intero orbe terracqueo.