Ventimiglia città aperta

La stazione di Ventimiglia brulica di gente: turisti francesi, famiglie in vacanza, ragazzi con tenda e sacco a pelo. Davanti alla biglietteria, tre soldati e due poliziotti. Tengono sott’occhio gli Africani che entrano ed escono dalla stazione. Perché se sei nero, a Ventimiglia, ci sono buone probabilità che tu sia anche un migrante in viaggio verso la Francia (o ancora più su, verso la Germania) e, per questo, da tenere sotto controllo.

Ultima fermata prima della frontiera, la città si è trasformata suo malgrado in un crocevia di uomini e donne (per la maggior parte africani, appunto) in fuga dai loro paesi e alla ricerca di un futuro in Europa. Rimangono però bloccati in Italia a causa dell’assurdo sistema elaborato dal Regolamento di Dublino, che li relega nel paese di primo approdo. Alcuni hanno già attraversato la frontiera illegalmente e sono stati “dublinati”, ossia rispediti indietro; altri vogliono raggiungere le famiglie oltre il confine. Attualmente sono circa 350, in parte ospitati dal campo della Croce Rossa e in parte organizzati in piccoli bivacchi. Dopo lo sgombero di aprile – ordinato dal Comune – del campo informale sorto sotto il ponte ferroviario, molti dormono per strada, in campagna, in spiaggia. Fra di loro ci sono donne e minori.
È proprio in stazione che incontriamo i ragazzi del Progetto 20k. Ci vengono a prendere su una macchina scassata, la stessa che usano per percorrere infinite volte al giorno la distanza che separa Ventimiglia dalla frontiera italiana, che rigurgita continuamente migranti bloccati dalla polizia francese alla stazione di Menton. “Saranno 15 km per tornare in città”, spiega uno dei ragazzi. “Sotto questo sole farseli a piedi è massacrante, quando possiamo carichiamo chi è costretto a tornare a Ventimiglia e ce lo riportiamo.”

La nostra prima tappa è l’info&legal-point Eufemia, che l’Associazione ha aperto ormai da due anni. Un piccolo spazio in via Tenda che è diventato velocemente un punto di riferimento per i migranti: alcuni vengono per usare Internet, altri per approfittare del sistema di prese e ciabatte che ricarica centinaia di cellulari ogni giorno. Fra i ragazzi del Progetto 20k c’è chi parla arabo, inglese e francese e cerca di dare una mano a quanti non capiscono l’italiano. In determinati giorni poi esperti legali forniscono assistenza tecnica ai migranti, mentre il martedì si riunisce sempre il Sister Group – un momento riservato alle donne per parlare e confrontarsi, portare i bambini o anche solo farsi una doccia. Sempre a Eufemia si distribuiscono vestiti e altri beni di prima necessità: tre o quattro alla volta, i migranti scendono nel magazzino ed escono con una maglietta, un pantalone o una felpa. Le scarpe sono molto richieste ma ce ne sono poche; molti chiedono un deodorante, della colonia, crema da barba.
Poco oltre, in un parcheggio lungo la stessa strada, dei ragazzi francesi ogni sera cucinano e distribuiscono cibo per i migranti. Ci fermiamo a mangiare con loro, seduti nello spiazzo polveroso. Una recinzione di metallo ci separa dal letto del fiume all’ombra del ponte, dove fino a qualche mese fa sorgeva il campo informale. “L’hanno fatta montare in questi giorni”, ci spiegano i ragazzi, “un muro per tenere separati i migranti dalla gente di Ventimiglia”.
Nei confronti del Comune e del sindaco Ioculano, la critica è netta: “Ha emanato un’ordinanza [poi revocata, a seguito delle forti proteste della società, Ndr] per multare chi offriva cibo e acqua ai migranti”. Non solo: “Hanno chiuso per motivi di ordine pubblico la Chiesa delle Gianchette, che era vicino al campo ed era un punto di riferimento per i migranti; la verità è che vogliono canalizzare l’accoglienza nel campo della Croce Rossa, dove è più facile identificare e controllare i migranti”.

Secondo i volontari con cui abbiamo parlato, quindi, l’atteggiamento delle istituzioni locali è di totale chiusura. I migranti sono percepiti esclusivamente come un problema che affligge la città e tutte le energie si concentrano nei tentativi di arginarlo. Un approccio peraltro condiviso dalla maggioranza della popolazione, obbligata a condividere i propri spazi con un flusso ininterrotto di persone che a Ventimiglia non avevano mai pianificato di finirci. Si respira un clima di palpabile insofferenza, che finisce col riversarsi sugli uomini e sulle donne bloccati alla frontiera e su chi cerca di aiutarli: non è un caso che la Lega Nord a Ventimiglia abbia ottenuto circa il 30% dei voti nelle ultime elezioni politiche.

Nei giorni successivi tocchiamo con mano la tensione che serpeggia in città, andando in giro con qualche volantino, per segnalare un’assemblea aperta organizzata dal Progetto 20k per discutere dei problemi generati dalla situazione. Molti non si fermano neanche, ci superano stringendo la bocca in una fessura sprezzante; altri ridacchiano chiedendo se siamo dalla parte dei migranti (come se vi fossero schieramenti opposti per cui parteggiare). C’è chi, allontanandosi bruscamente, ci urla che è il governo che deve pensare a queste questioni, mentre un paio di persone si fermano per dirci che fa bene Salvini a chiudere i porti, perché ci sono figli e nipoti che non stanno lavorando per colpa dei migranti. Ma non incontriamo nessuno disposto a discutere della questione.
Schedati dalla Polizia
Ma stimolare un confronto consapevole sulla condizione di Ventimiglia non è il solo momento importante del lavoro del Progetto 20k: altro sforzo fondamentale dei ragazzi è infatti il monitoraggio di ciò che accade nella cittadina ligure. Nelle stazioni, per strada, alla frontiera, i volontari sorvegliano l’operato delle forze dell’ordine, per denunciare pubblicamente ogni possibile abuso. Per ciò, la maggior parte dei ragazzi è stata identificata dalla Polizia, alla continua ricerca di dati e documenti.

Mentre ci dirigiamo in macchina alla stazione di Menton, il nostro autista ci spiega che i minori, i quali teoricamente dovrebbero essere capaci di attraversare la frontiera senza ostacolo, sono spesso bloccati e rispediti indietro senza essere identificati in una caserma o in un commissariato. Il Progetto 20k vuole portare all’attenzione pubblica questo comportamento – come altri simili. Uno tra i tanti è la pratica dei rastrellamenti randomici che consiste nel prelevare inaspettatamente quelle persone di origine africana che risultano prive di documenti, metterle su autobus diretti verso gli hotspot di Taranto e Crotone, dove sono rilasciati senza controlli. “L’intento di questo tipo di operazione è chiaro”, ci dice la nostra guida, “alleggerire l’effetto tappo a Ventimiglia, far spendere ulteriori soldi e tempo ai migranti che devono di nuovo farsi tutta l’Italia per tornare al punto di partenza, scoraggiandoli dal tornare”. Gli autobus diretti agli hotspot partono regolarmente, con cadenza praticamente settimanale: l’ultimo aveva lasciato Ventimiglia proprio la mattina del nostro arrivo.
Il giorno che passiamo noi, comunque, alla stazione di Menton sembra tutto tranquillo. Arriva un treno dall’Italia, alcuni uomini in uniforme salgono nella prima carrozza e scendono dall’ultima: niente. Ne arriva un altro, stessa scena. Decidiamo di passare a controllare la situazione nei pressi della frontiera italiana. Pochi metri dentro il territorio italiano, vediamo tre ragazze africane che parlano sedute lungo un muretto a picco sul mare. Ci avviciniamo e proviamo a chiedere se hanno bisogno di un passaggio in macchina per Ventimiglia. “No italiano, only French”, ci dice una. Sono molto diffidenti, ma un altro migrante di passaggio si ferma per tradurre. Con il suo aiuto, spieghiamo chi siamo e capiamo che stanno cercando di tornare in stazione a Ventimiglia. Le facciamo salire, e l’uomo che ha tradotto scherza: “Portate solo ragazze?”. La nostra guida gli dice di avviarsi, che una volta riportate le donne in città tornerà a prenderlo. In stazione, così, rimaniamo solo noi e le nostre tre passeggere.

Cerchiamo di parlare un po’ e scopriamo che sono della Costa d’Avorio e vogliono raggiungere la Francia. Sono molto belle e mi rendo conto che una di loro è incinta di qualche mese. Appena ci allontaniamo un secondo, vengono circondate da un gruppo di Africani che cominciano a gesticolare. Più tardi veniamo a sapere che si tratta di trafficanti, richiamati dalla presenza di tre donne sole. Il nostro ritorno però sembra scoraggiarli, perché si allontano. Al momento di salutarci, la donna incinta mi sorride e mi dice: “Thank you, sister”. La guardo negli occhi: non parla una parola di italiano, conosce solo qualche frase in inglese ed è sola con due compagne in questo Paese che non la vuole. Mi sembra così inerme, nella sua diffidenza, che però le ha permesso di affidarsi subito a noi, quando abbiamo detto di essere amici. Porta un bimbo in grembo, e di colpo mi trovo a sperare che possa nascere in Francia. Le sorrido, ma non mi viene in mente nulla da dire.

Rimaniamo pochi giorni a Ventimiglia, il tempo di farci un’idea. Parliamo con i migranti, parliamo con i ragazzi del Progetto 20k, partecipiamo all’assemblea che segue la grande manifestazione del 14 luglio: dove lo Stato e l’Europa vengono meno, piccole realtà locali (da Genova a Nizza) hanno raccolto volontari dai diciannove agli ottant’anni che lavorano per fornire assistenza alle persone bloccate a Ventimiglia e per documentare e denunciare pubblicamente una situazione che contrasta con buona parte dei valori che abbiamo la fortuna di leggere codificati nella Costituzione italiana. Ci sono anche loro a Ventimiglia, e non vanno lasciati soli.