Il cyberbullismo non si è arrestato neppure durante la pandemia. Foto: Keira Burton (Pexels)

Un’altra “minaccia digitale”: il cyberbullismo

In Italia il cyberbullismo ha destato scalpore nel 2013, quando la studentessa 14enne Carolina Picchio decise di togliersi la vita dopo che un gruppo di ragazzi, suoi coetanei, aveva postato in rete un video nel quale la giovane era oggetto di molestie sessuali di gruppo. Il cyberbullismo è uno degli effetti negativi della rete e non si è arrestato neppure durante la pandemia.

Di Giuseppina Varacalli, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

Trafugare dati all’interno del mare magnum del digitale, ricoprendo identità diverse dalla propria, non è l’unico pericolo che il Web ci può riservare. Molte attitudini negative che in passato sono nate e si sono sviluppate attraverso episodi reali hanno avuto una nuova collocazione, anche durante la pandemia: gli ambienti tecnologici- digitali. 

Uno dei fenomeni sociali della rete che ha attirato l’attenzione e la preoccupazione di genitori, insegnanti ed educatori è il cyberbullismo, “una forma di prevaricazione volontaria e ripetuta nel tempo, attuata mediante uno strumento elettronico, perpetuata contro un singolo o un gruppo con l’obiettivo di ferire e mettere a disagio la vittima di tale comportamento, che non riesce a difendersi” (Smith et al., 2006). Il termine venne coniato nel 2002 dall’educatore canadese Bill Belsey e da quel momento è entrato a far parte dei fenomeni sociali negativi che la rete può generare e alimentare. 

A differenza del bullismo che si realizza mediante forme concrete di denigrazione verbale, fisica o psicologica, il cyberbullismo agisce tramite modalità di trasmissione online di materiale denigratorio o aggressivo in modo tale che esso si mantenga a lungo e difficilmente venga rimosso o cancellato. In alcuni casi vengono pubblicate online delle riprese – video che mostrano eventi reali di bullismo o casi di materiale a sfondo sessuale (sexting). Questo meccanismo genera un enorme sbilanciamento di potere tra la vittima e chi divulga il materiale (tante volte mantiene l’anonimato), agendo indelebilmente sulla psiche della persona coinvolta, causando una forte violenza psicologica. A completare il quadro drammatico della situazione, ci sono i cosiddetti bystanders, ovvero gli “spettatori”, coloro che osservano il fenomeno appena sviluppato in rete ma non intervengono a favore della vittima anzi condividono a sua volta il video e le foto sui social network, alimentando la pericolosità dello sharing a scopo denigratorio.

Da una recente indagine svolta dall’Associazione Nazionale Di.Te, condotta in collaborazione con il portale Skuola.net e con VRAI (Vision, Robotics and Artificial Intelligence – Dipartimento di Ingegneria Informatica dell’Università Politecnica delle Marche) è emerso che su un campione di 3.115 studenti (età compresa tra gli 11 e i 19 anni) almeno 1 adolescente su 8 è vittima di eventi spiacevoli, tutti avvenuti tramite Internet. 

La didattica a distanza, nel periodo della pandemia, ha fatto accrescere la tempistica con cui ogni alunn* si trova online: questo ha portato ad una nuova tipologia di atti che a volte hanno a che vedere con classi intere, amplificando la platea di spettatori davanti a scene di cyberbullismo. Più o meno 1 intervistato su 5, ad esempio, dice di aver assistito ‘da remoto’ a episodi che mettevano nel mirino altri compagni, 2 su 5 addirittura i docenti. “L’immaterialità della relazione digitale – fa notare Daniele Grassucci, direttore di Skuola.net – libera da tutta una serie di freni inibitori, scatenando nel peggiore dei casi fenomeni feroci come l’hate speech o il cyberbullismo. Cosicché nella DAD diventano enormi le percentuali di studenti che si sentono liberi di prendere in giro altri compagni o i propri docenti. Situazioni che di sicuro avvengono anche in classe, ma non ci risulta in queste proporzioni”.

Quali sono però i luoghi digitali dove maggiormente prende forma, purtroppo, questo fenomeno sociale? I social network rappresentano circa il 72% dei casi, le chat il 45%, le piattaforme di videogiochi il 23%, i canali video 18%, le piattaforme di videochat il 12 % e la DAD il 6% (fonte: Tgcom24, articolo del 5 Febbraio 2021). 

Oltre la metà dei ragazzi intervistati collega il tempo prolungato sui social network e sulle chat con una maggiore esposizione a fenomeni di cyberbullismo o, nel peggiore dei casi, ad azioni che hanno come conseguenza quella di diventare dei “bulli da tastiera”, sia nel ruolo di principali divulgatori di materiale personale di altr* ragazz* sia come corresponsabili del fenomeno, condividendo o mettendo semplicemente un like a foto, video, stories o post che rappresentano delle prese in giro. 

In Italia, uno degli episodi clamorosi si verificò nel 2013 quando Carolina Picchio, studentessa di 14 anni, decise di togliersi la vita a seguito di un video postato in rete da cinque suoi coetanei, tra cui il suo ex fidanzato, video in cui la giovane è oggetto di molestie sessuali di gruppo (sexting). L’avvenuto fece molto scalpore a tal punto da portare ad un provvedimento importante che segnò lo spartiacque definitivo sul tema dei provvedimenti contro il cyberbullismo.   

Nel prossimo articolo, parlerò di questo specifico disegno di legge e di quali possono essere le soluzioni che si potrebbero adottare di fronte a casi di questo genere.