L’utilità dell’inutile: riscoprirci umani, riscoprirci uguali – parte 3

di Chiara Pizzulli e Chiara Taiariol, articoliste dell’Agenzia di Stampa Giovanile

Ne Il pensiero dominante, Leopardi criticava la società, che definiva superba, perché impegnata soltanto a inseguire l’utile. L’utile è la merce, che risponde ai bisogni più disparati, essenziali o meno. La sua carta vincente risiede nella sua natura di oggetto materiale, con un proprio valore economico e una propria funzione.

“La poesia non è merce perché

non è consumabile. Non è prodotta

‘in serie’: non è dunque un prodotto.

E un lettore di poesia può leggere

anche un milione di volte una poesia:

non la consumerà mai.”

La poesia non è merce, scrive Pasolini in questi versi. La grande differenza tra la merce e la poesia risiede nel fatto che la prima ha una data di scadenza, mentre la seconda no. Il cibo che non mangiamo scade, i vestiti si bucano dopo anni di utilizzo, la macchina che ci permette di spostarci necessita di manutenzione costante (e anche con l’attenzione necessaria, prima o poi ci abbandonerà). Eppure, almeno una volta nella vita, entriamo in contatto con qualcosa che sopravvive con decine di centinaia di anni alle spalle. Si tratta della poesia, forma di resistenza contra la dittatura dell’utilitarismo.

Quasi tutti hanno letto, quantomeno tra i banchi di scuola, qualche verso di Seneca o di Orazio, un sonetto di Petrarca o una terzina di Dante. Non importa quanti lettori abbiano letto e leggeranno la stessa poesia e per quante volte: non è un bene consumabile o deteriorabile. Anzi, è possibile che alla decima lettura ci dica qualcosa di nuovo.

Col passare del tempo si sono affermate molte e diverse correnti letterarie, sono mutate le tendenze estetiche e si sono sviluppate nuove ricerche stilistiche. Eppure, una poesia di duemila anni fa, riesce ancora a comunicare con noi.

“Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sicfiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit.”

(“Fa’ dunque, o mio Lucilio, quello che scrivi di fare, abbraccia tutte le ore; così accadrà che tu dipenda meno dal domani, se porrai la mano sull’oggi. Mentre si rinvia la vita scorre”).

Nella prima lettera a Lucilio, Senaca si interroga sulla fugacità del tempo e sulla brevità della vita terrena. Ma non sarà il solo: Petrarca scrive nel primo sonetto del Canzoniere, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono:

“ […] e ’l conoscer chiaramente

che quanto piace al mondo è breve sogno.”

(“ […] e il sapere con chiarezza

che tutto ciò che riguarda la vita terrena è di breve durata”).

In questo sonetto Petrarca analizza il suo passato, caratterizzato dall’amore per Laura, morta anni prima. La poesia si sviluppa su due piani temporali: il passato, momento dell’errore, e il presente, tempo del pentimento e della vergogna. Il poeta è angosciato dal fluire inesorabile del tempo, che porterà via con sé tutte le cose terrene, vane e precarie. Quasi seicento anni dopo, altri poeti si interrogheranno sulla precarietà dell’esistenza.

“Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.”

Si tratta degli ultimi tre versi di Solitudini, una poesia di Salvatore Quasimodo. Il poeta ha poi deciso di renderla una poesia a sé stante, perché fosse il più ermetica possibile, e l’ha intitolata Ed è subito sera. Quasimodo racchiude, in pochi versi, il (non) senso dell’esistenza umana: gli uomini, soli poiché incapaci di comunicare realmente tra di loro, faticano pur sapendo di avere un’ignota data di scadenza, abbagliati talvolta dalla speranza, rappresenta da un raggio di sole. Eppure, nonostante il suo contenuto, la lirica sembra non arrendersi totalmente di fronte alla nostra mortalità. La scelta del verbo “stare”, dilata la fugacità dilagante nel senso della poesia: forse la vita dura uno schiocco di dita, ma, allo stesso modo, uno schiocco di dita dura una vita. Infine, Ungaretti in Ultimi cori per la terra promessa, scrive:

“ […] Che nel legarsi, sciogliersi o durare,

Non sono i giorni se non vago fumo.”

In Ungaretti il dato temporale è importantissimo. Proprio sulle problematiche del tempo, si interrogherà a più riprese nella maggior parte delle sue raccolte. L’umana limitatezza rende quanto meno inafferrabile, se non inesistente, il senso della vita. Alla ricerca di un senso dell’umano peregrinare, Ungaretti risponde così: i giorni sono vago fumo.

Nonostante le differenze formali, linguistiche, ritmiche e metriche, i contenuti non esauriscono la loro carica emotiva. L’inutile trascende il tempo e ci parla di noi, si pone le nostre stesse domande, ci indirizza verso risposte condivisibili. In questo risiede l’utilità dell’inutile: riscoprirci umani, riscoprirci uguali.