I ponti, i muri e gli altri: John Carlin porta Mandela a Bolzano

di Carlotta Zaccarelli, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile
Fotografia di Marianna Montagnana

John Carlin è un tipo alto, serio, realista. Fa il giornalista e, nel corso della sua carriera, si è spostato dall’Europa all’America centro-meridionale al Sudafrica. Qui, ha conosciuto da vicino uno dei più grandi attivisti e statisti di sempre: Nelson Mandela.

Venerdì 10 maggio, John Carlin era a Bolzano proprio per parlare di lui, di Mandela. Il suo intervento s’inseriva in un progetto portato avanti dal Centro per la Pace del capoluogo altoatesino in collaborazione con il Centro antirazzista Benny Nato: l’esposizione della mostra fotografica Il Sudafrica e il sostegno italiano contro l’apartheid, realizzata già nel 2004 in occasione del decennale della fine della segregazione razziale in Sudafrica.

Scopo dell’evento è ricordare alla società italiana di oggi lo sforzo della sua controparte di ieri per combattere la discriminazione in tutte le sue manifestazioni – etnica, economica, politica, sociale, culturale. È incoraggiarci a continuare questa lotta, specialmente in un momento storico in cui il mondo è infestato da incubi che parlano di chiusura, esclusione, supremazia, primato di alcuni esseri umani su altri esseri umani. Incubi che raccontano che è impossibile costruire canali di comunicazione e condivisione con il diverso.

È proprio attorno al rapporto io-altro che si sviluppa il dialogo con John Carlin, testimone privilegiato del mondo e dello sforzo di chi ha tanto cercato di cambiarlo in meglio.

-Pensando al motivo per cui lei è a Bolzano, mi sono chiesta come si può definire l’apartheid. E mi sono risposta che l’apartheid è il disprezzo e il disgusto dell’altro che sfociano in un sistema di discriminazione istituzionalizzata. Vorrei sapere se è d’accordo e se riesce a indicarmi quale secondo lei è il germe di questa discriminazione, tenendo presente anche l’attuale situazione europea.


È una domanda molto complessa. Usi la parola disprezzo, ma io preferirei usare paura… Paura dell’ignoto che può generare come no disprezzo, odio. Ma la paura di ciò che è sconosciuto è e resta il punto di partenza. Stiamo parlando di qualcosa di connaturato alla specie umana. Il caso sudafricano, l’apartheid, è inusuale perché qualcosa di così legato all’essere umano come il razzismo (ossia la paura delle altre etnie) è stato mostrato e narrato in modo molto semplice, come fosse una storia per bambini: tutto era chiaro, c’era il bianco e c’era il nero e la differenza netta tra di loro.

Però il razzismo non è sudafricano, ma universale. I primi esseri umani si sono mossi dall’Africa verso Nord e si sono stanziati nel moderno Medio Oriente. Cinquemila anni dopo, altri esseri umani sono usciti dall’Africa e hanno raggiunto quegli stessi territori: lì, tuttavia, sono stati rigettati perché diversi. Il razzismo è ovunque. Non è solo come pensiamo noi in Europa, cioè l’azione discriminatoria del bianco contro il nero: persone di colore sono razziste nei confronti di persone di colore, come succede in Africa. Conosco bene il Rwanda e posso dire con certezza che Tutsi e Hutu, carnefici e vittime del genocidio del 1994, sono molto simili. Questo è razzismo.

-E qual è la situazione attuale del Sudafrica: c’è ancora il razzismo? Che forma ha preso?


Anche oggi in Sudafrica persiste il razzismo… C’è quello dei bianchi verso i neri, ma è una vecchia storia… Il fatto è che, da quando è diventato un Paese democratico, il Sudafrica è meta di molti africani che emigrano per cercare un lavoro migliore come fanno i messicani con gli Stati Uniti. Vengono dallo Zimbabwe, dal Mozambico, dal Congo, dal Sudan, dal Malawi, dallo Zambia, dappertutto. E molti di loro sono trattati con estremo razzismo, con impressionante xenofobia dai sudafricani neri. Parliamo di aggressioni, di grande violenza. Tutto perché parlano lingue diverse, perché sono diversi.

Penso quindi sia importante considerare il razzismo in un contesto umano universale e non intenderlo solo come un atteggiamento di noi bianchi ricchi contro i poveri e diversi. È un fenomeno trasversale, si trova anche in Sudamerica, in Asia. Ripeto, l’eccezionalità del Sudafrica è che era così ovvio, chiaro. L’apartheid aveva un “lato positivo”, se così si può dire: l’onestà. Ci sono molti paesi dove c’è un apartheid de facto, anche se passato sotto silenzio. In Sudafrica chi era al potere era così brutalmente onesto da scrivere il razzismo, la separazione delle etnie nella legge costituzionale. Sono stato in America centrale prima del Sudafrica e penso di poter sostenere che il razzismo e l’apartheid erano peggiori in Guatemala che in Sudafrica: erano più terribili e spaventosi. In Guatemala, l’80% della popolazione era indigena ed era terrorizzata dalla classe dirigente bianca. Come giornalista, era molto difficile trovare indigeni che mi parlassero della loro situazione. In Sudafrica, gli africani discriminati ti dicevano tutto sull’apartheid mentre c’era l’apartheid.

Naturalmente, questa risposta è solo un’approssimazione. Ma quello che voglio sottolineare è che la paura dell’altro è qualcosa di molto complesso e di molto profondo. Chi si immagina che il razzismo possa essere eradicato velocemente si sta illudendo. Allo stesso tempo, dobbiamo continuare a combatterlo. Le cose stanno migliorando, sono migliorate rispetto a cento anni fa. Ma la paura dell’ignoto non scomparirà nel giro di poco.

-Cosa pensa dei movimenti nazionalisti che traggono vantaggio da questa paura? Che la usano per governare… Perché sono diventati forti ora, per esempio?


Abbiamo sempre una tendenza ad immaginare che il nostro periodo storico sia in qualche modo peggiore e più complicato dei precedenti. Non sono sicuro che sia vero, però. Penso che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole. Parliamo del male nazionalista oggi, ma cosa accadde il secolo scorso con Mussolini e Hitler? Era un altro livello, ora viviamo una forma lieve di nazionalismo rispetto al nazifascismo.

Viviamo in un periodo in cui nazionalisti e populisti stanno avendo successo, in cui la loro è una formula efficace per raggiungere il potere in Italia, negli Stati Uniti, nel Regno Unito con la Brexit, in Brasile con Bolsonaro, in Turchia con Erdogan, in Polonia, in Ungheria… È una formula che funziona. Quello che dicono questi leaders populisti è che c’è un nemico (il nazionalismo per definizione ha bisogno di un nemico), che dobbiamo temerlo e che loro proteggeranno tutti: quindi, “votatemi!”. È molto semplice, primitivo e molto vecchio. È successo per migliaia di anni, lo facevano in Assiria cinquemila anni fa. È una storia vecchia che funziona sempre e bene.

Forse oggi viviamo in un tempo di incertezza, un’epoca di post-ideologie e le persone sono più disposte a credere a questi redentori, a questi messia… Mentre crescevo io, c’era la Destra e la Sinistra. Adesso è molto più ingarbugliato. Viviamo anche in Europa occidentale, in un luogo e in tempo di post-religione perché le persone hanno abbandonato la fede in Dio propria delle grandi religioni corali. Le persone sono confuse, stanno cercando punti di riferimento. E in quest’atmosfera di confusione e incertezza i grandi populisti redentori fioriscono e prosperano.
È solo un’infarinatura di quello che secondo me sta succedendo.

-Pensa che questo fiorire sia un sintomo di una crisi culturale, identitaria dell’Europa?

È in parte quello che le stavo spiegando prima. Quando ero giovane io, era tutto molto chiaro: c’erano Destra e Sinistra, la Guerra fredda e la contrapposizione netta tra capitalismo e comunismo. Adesso è tutto dissolto e disorientante. Adesso le vecchie etichette sono molto più labili. E sono intervenute nello scenario pubblico anche tante altre questioni: il clima, il genere… È un grande miscuglio di cose nuove. Considera che nella storia del mondo la questione del genere (grande e centrale) è molto nuova e bisogna tenerlo ben presente: il femminismo è un movimento nato circa trent’anni fa, un tempo molto breve nella storia del mondo. La stessa cosa per la questione climatica. E le cose si muovono molto velocemente: nel corso della mia vita, c’è stato un cambiamento d’atteggiamento verso le donne, gli omosessuali e le altre etnie molto significativo. È stato molto veloce.

Alcune persone che hanno vissuto questo cambiamento si sono mosse altrettanto velocemente, ma molte altre no e resistono ancora all’idea delle donne con una vita fuori da casa, all’idea del matrimonio omosessuale… Sentono il bisogno di rallentare. Io appartengo al gruppo di chi ha accolto il nuovo, la mia generazione lo ha in qualche modo favorito, ma penso che molte cose che stanno accadendo velocemente abbiano veramente sconvolto e sconvolgano altri. E penso che votare persone come Trump sia una reazione al troppo veloce. È un modo per guardare indietro. Trump dice “Make America Great AGAIN”: è come se promuovesse un ritorno a una sorta di età d’oro perduta, andata. Un’epoca in cui le donne stavano a casa ad accudire i bambini, gli omosessuali erano invisibili, gli afro-americani non costituivano un problema perché erano poveri e li lasceremo lì a vivere in quelle loro condizioni.

Per me è molto semplice essere critico, e sono molto molto critico di persone come Trump e Salvini perché davvero non mi piacciono… Ma forse bisognerebbe essere come Mandela: mettersi nelle scarpe dell’altro. Dovremmo farlo perché facendolo si riuscirebbe forse a combattere il nazionalismo, il razzismo, la discriminazione, la paura dell’ignoto in modo più efficacie.

-Quali sono allora gli strumenti per riuscire a centrare questo obiettivo?
La paura è all’origine di molto di quanto sta accadendo. Parte di essa è una qualche sorta di ignoranza. Non so qui in Italia, ma in Regno Unito esiste questa grossa ironia per cui le persone che supportano di più i movimenti nazionalisti e razzisti vengono dalle comunità dove ci sono pochissimi neri e islamici. A Londra, che è una sorta di miscuglio di tutto quanto esiste nel mondo, la maggioranza ha votato contro la Brexit. Alle ultime elezioni amministrative, abbiamo eletto un sindaco i cui genitori sono pakistani. A Londra vediamo musulmani, africani, albanesi e tanti altri tutti i giorni della settimana e sappiamo che riusciamo ad andarci d’accordo. Ma le persone che vivono nelle piccole città in riva al mare, in Essex ad esempio, persone che non hanno mai visto un africano o un musulmano sono terrorizzate da loro.

È una questione di ignoranza e di educazione, di esporre le persone al diverso. Di dire loro che non c’è nulla di cui avere paura.

–Dietro questi movimenti nazionalisti sembra esserci una sorta di strategia, linea comune e/o eminenza grigia che li collega tutti. Sto pensando all’ex stratega di Steve Bannon, ad esempio… Cosa ne pensa di lui?
Penso sia molto intelligente e che capisca bene l’affare di usare la paura per manipolare le persone a scopi politici. Sto parlando di qualcosa che sembra complicato, ma non penso lo sia: per questi populisti è sufficiente individuare un nemico di cui si sa molto poco perché attorno a lui c’è molta ignoranza, renderlo terrificante e dichiararsi il difensore onnipotente. È una formula brillantemente semplice che funziona bene.

La cosiddetta Sinistra, non solo politica, ha responsabilità in quello che sta succedendo?
Torno a Mandela. Lui era il grande costruttore di ponti, che è un altro modo di dire che Mandela cercò di conquistare la paura delle persone, di dire loro che non c’era tanto da temere.

Forse la Sinistra ha solo giocato al gioco degli antagonismi nello stesso modo degli altri. Per esempio, faccio una riflessione. A Londra c’è stata una protesta contro il cambiamento climatico chiamata Extincion Rebellion che vuole salvare il Pianeta, ossia portare avanti una battaglia che coinvolge tutti… Non importa che tu sia di Sinistra, di Destra, cristiano, ateo, musulmano… Però ho la sensazione che questa protesta, e molte altre simili, sia molto autoreferenziale. Andando alle manifestazioni di Extinction Rebellion a Westminster Bridge, si vedono spesso cartelli che proclamano slogan come “Down with capitalism also”: va bene, ma chi protesta dovrebbe volere che anche i capitalisti siano dalla sua parte perché si sta parlando della salute dell’intero Pianeta. Ripeto, non importa che religione o ideologia: si dovrebbe andare oltre e cercare di includere tutti nella lotta.

Proteste di questo tipo stanno facendo qualcosa di molto positivo attirando l’attenzione sulle problematiche attorno alle quali si organizzano, ma stanno forse fallendo nella missione più importante che è aumentare la consapevolezza di tutti, indipendentemente dalla loro parte politica. Quindi, se c’è una critica che posso muovere alla Sinistra (nella quale in generale mi includo anch’io) è il mancato o insufficiente tentativo di mettersi nella pelle degli altri e, così, costruire ponti. Invece di cercare solo di sentirsi a posto con la propria coscienza…

-Dove sono i giovani in questo scenario?
I giovani come i vecchi rappresentano tutti i punti di vista o nessun punto di vista. Anche se è deprimente, è fondamentale capire che le persone che pensano a questioni politiche sono una minoranza della popolazione mondiale. La politica è uno sport della minoranza, il calcio è centomila volte più seguito della politica. Le persone non sono molto informate e non pensano molto alle questioni politiche.

Classificare tutti i giovani come se avessero una visione monolitica delle cose è ridicolo. I giovani sono come sono sempre stati: c’è un po’ di tutto in mezzo a loro. È un grosso errore pensare e dire che qualcuno come te, che lavora per un giornale giovanile, parli per tutti i giovani. Nel Regno Unito, quando l’ultraconservatore Nigel Farrage dice di parlare nel nome del popolo britannico… Sta zitto! Lui come Trump dicono di parlare per il popolo, ma non è vero: è una sciocchezza, è assolutamente falso. È tipico di nazionalismo e populismo, affermare di essere il popolo genuino mentre gli altri sono il falso, sono traditori.

I giovani devono, individualmente o in piccoli gruppi, ricordarsi della tendenza umana a progettare e agire avendo come obiettivo principale la soddisfazione personale. Comunicare con gli altri, farli ragionare diventa un obiettivo secondario. Molto di tutto questo ha a che fare con la vanità. La Bibbia, nel libro dell’Ecclesiaste, dice che tutto è vanità. Ma per cambiare il mondo bisogna combattere la vanità.

Quando si ha a che fare con giovani che vogliono cambiare il mondo, credo sia fondamentale chiarire questo: bisogna essere onesti con sé stessi e chiedersi cosa si sta facendo davvero, quali sono le proprie proprietà. È una domanda tanto difficile quanto imprescindibile, perché la vanità è molto forte nell’essere umano.

-Stasera parlerà di Mandela. Sta quindi tenendo vivo il suo ricordo, il suo messaggio, il suo esempio. Quanto importante è la memoria storia per il futuro?
Terribilmente importante. Sfortunatamente, la vicenda mondiale dimostra che le persone non imparano dalla storia. Non ascoltano la storia. Ripetono gli stessi errori ancora e ancora e ancora. Quello che sta accadendo con i movimenti nazionalisti è una sorta di ripetizione degli orrori di circa un secolo fa. Naturalmente, bisogna mettere tutto in prospettiva: non è remotamente così grave come quello che è accaduto, non ha la stessa scala. Non offendiamo le vittime di quel tempo.

Ma sembra esserci una sindrome della dimenticanza… Considera il Sudafrica di oggi: ci sono molte persone, spesso giovani, molto critiche di Mandela. Dicono che non abbia fatto abbastanza per affrontare i problemi dell’ingiustizia economica, che avrebbe dovuto prendere terre e soldi ai bianchi. Si può dire, ma bisogna considerare questo: se in quel particolare momento storico, se venticinque anni fa Mandela avesse fatto così, il risultato sarebbe stato una terribile guerra civile. È questione di guardare al possibile. Come si dice, la politica è ciò che può essere fatto. È importate ricordarselo, altrimenti ci si inganna. Mandela ha fatto il meglio che poteva sotto le circostanze in cui si trovava.

Le persone che non capiscono bene la storia interpretano male il presente, prendono cattive decisioni e soprattutto non imparano. Così gli errori si ripetono, si creano nemici, si ingigantisce la paura, compaiono redentori salvifici… È una situazione per molti versi disperata. È molto più semplice essere leader guerrafondaio che essere un leader impegnato a costruire ponti. È per questo che dei secondi ce ne sono pochi. Mandela è uno, Abraham Lincoln è un altro. Sembra ce ne sia uno ogni cento anni!

Quello a cui do valore sono politici, leaders, gruppi di giovani la cui missione è costruire ponti e non muri, che cercano modi per unire le persone e non dividerle. E forse è su questa linea che corre la divisione del mondo in questo momento: non Destra e Sinistra, marxisti e capitalisti, ma costruttori di ponti e costruttori di muri. Dal mio punto di vista, è meglio costruire ponti.

Come le piacerebbe che Mandela fosse ricordato?
Mandela credeva che essere nati bianchi o neri, ricchi o poveri, italiani o etiopi fosse solo una questione di casualità. Credeva che le persone, proprio per le circostanze in cui crescono, sviluppino determinati pregiudizi e certe visioni politiche. Che bisognasse capire questa casualità e che fosse necessario cercare di mettersi nei panni dell’altro. Se lo si fa, si dimostra la capacità di capire la umanità con tutte le sue debolezze. Se si capisce come tutte le cose siano fortuite, si ha maggiore possibilità di perdonare e rispettare gli altri. Di individuare e accentuare le cose in comune invece che estremizzare le differenze. E penso che ciò che le persone di tutte le origini e ideologie hanno in comune sia molto di più di quello che le divide. Mandela lo sapeva. Dove c’erano differenze, cercava di creare comunicazione e rispetto e ponti di comprensione.