Giustizia climatica è (anche) giustizia per i migranti

È possibile garantire la libertà di movimento in un mondo alle prese con il cambiamento climatico? Numeri, definizioni, accordi internazionali, opinioni e (mancate) soluzioni per affrontare il fenomeno della migrazione climatica. 

Di Elisa Lunardelli

“Little Amal” è una bambina, è siriana, ma non vive più in Siria. È dovuta scappare da quella terra devastata. “Little Amal” è sola: da sei mesi cerca la sua mamma, ma non riesce a trovarla. È per lei che ha percorso instancabilmente 8000 km: dalla Turchia è arrivata in Grecia, da qui ha raggiunto l’Italia, poi la Francia, la Svizzera, la Germania, il Belgio e infine è arrivata nel Regno Unito. “Little Amal” è una migrante. “Little Amal” chiede asilo.

Little Amal” è più alta dei suoi coetanei, non puoi non notarla quando lenta incede per le strade della città. I bambini la salutano sorridenti, le saltellano attorno, gli anziani al bar alzano lo sguardo curiosi, i ragazzi le tendono la mano, la scortano nel suo viaggio, gli artisti ballano e suonano quando passa loro accanto, le mamme la accarezzano mentre la sera si addormenta stanca. Dopo aver faticosamente attraversato città affollate, pianure sconfinate, spiagge e boschi, “Little Amal” è arrivata a Glasgow, alla COP26. È qui per raccontare di quei milioni di passi che le sue scarpette hanno dovuto fare e che, purtroppo, sono quelli di molti altri bambini costretti a camminare da soli. È qui anche per guardare con i suoi grandi occhi malinconici quello che i leader del mondo decideranno per il suo futuro.

Nuovi spostamenti a causa di catastrofi: ripartizione per rischi (2008 -2006).
iDMC_ International displacement monitoring centre

Nel 2020, insieme a “Little Amal”, hanno dovuto lasciare le loro case 82.4 milioni di persone. Più di 7 milioni di questi migranti si sono spostati in altre zone del proprio Paese, meno colpite da catastrofi naturali. A conferma di ciò, nel corso degli anni, i disastri naturali sono diventati la causa principale per cui ci si muove all’interno degli Stati, arrivando ad essere la motivazione principale del 98% dei 30.7 milioni di nuovi sfollati registrati nel 2020, dei quali i più colpiti sono gli abitanti del Sud-est asiatico e del Pacifico: in Cina sono 5.1 milioni gli sfollati interni per disastri naturali, sia nelle Filippine che in Bangladesh 4.4 milioni, in India 3.9 milioni. Anche gli Stati Uniti hanno avuto 1.7 milioni di migranti interni. E la situazione, purtroppo, non sembra essere destinata a migliorare. A causa del cambiamento climatico, infatti, sempre più territori saranno soggetti non solo ad eventi atmosferici estremi, ma anche a mutamenti graduali ma ugualmente devastanti.

L’innalzamento delle temperature, la desertificazione, la perdita della biodiversità, la degradazione del terreno e delle foreste, il restringimento dei ghiacciai, l’acidificazione degli oceani, l’innalzamento dei livelli dei mari e della loro salinità sono conseguenze che si verificano lentamente, ma che mettono a serio rischio la vita di tutte le specie presenti sulla terra, anche quella umana.

Numero totale di sfollati per catastrofi al 31 dicembre 2020.
iDMC_ International displacement monitoring centre

Non è quindi più possibile ignorare che i migranti climatici esistono, continueranno ad esistere e, purtroppo, ad aumentare. Purtroppo alla COP26 questo tema è stato affrontato solo fuori dalle sale della negoziazione. Alcune associazioni, tra le quali Good Chance Theatre, Green Hope Foundation, European Network of migrant women e Young Power in Social Action, sono riuscite a ritagliarsi qualche spazio nei padiglioni della Blue e della Green Zone per raccontare della connessione tra migrazione e cambiamento climatico e protestare per l’assenza di una rispettiva discussione tra i delegati degli Stati.

Sarebbe stato doveroso portare all’interno del dibattito questa tematica: un confronto serio sulla possibile creazione di un meccanismo comune per gestire i flussi migratori legati al cambiamento climatico  è doveroso.  Non ci si può illudere che il denaro da solo metta a tacere quella “responsabilità comune ma differenziata” di cui tanto si parla nei documenti. La questione climatica e la questione migratoria sono prima di tutto  questioni di giustizia, di umanità.

A livello internazionale, per il momento, il fenomeno della migrazione climatica è poco trattato.  Questo avviene per la prima volta nella Convenzione di New York per i Rifugiati e i Migranti del 2016 che, ai paragrafi 1 e 43, cita il cambiamento climatico tra i fattori di spinta dei flussi migratori. L’unica specifica definizione del fenomeno , è stata elaborata dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che descrive come “migranti ambientali” le persone o i gruppi di persone che, per lo più mossi da cambiamenti ambientali repentini o graduali che influenzano negativamente la loro vita o le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case, o scelgono di lasciarle, per un periodo o permanentemente, muovendosi all’interno del loro paese o all’estero. Tuttavia, non vi è ancora un riconoscimento dello status di “rifugiati ambientali”, quindi questi migranti non possono chiedere asilo in altri Stati, poiché la motivazione climatica non rientra tra quelle elencate all’art.1 della Convenzione di Ginevra (“razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”). Il quadro legislativo che si prospetta in questo ambito è quindi ancora molto incompleto e, poiché si parla della vita delle persone, ciò comporta enormi rischi di abusi ed ingiustizie.

Nuovi spostamenti nel 2020: ripartizione per conflitti e disastri ambientali.
iDMC_International Displacement monitoring centre

La COP26 poteva essere un’occasione unica per far germogliare una sensibilità nuova, capace di ammettere le responsabilità nel causare situazioni di vulnerabilità, capace di riconoscere la correlazione tra i fenomeni che interessano il nostro presente e di affrontarli con un approccio comprensivo, che tenga conto della migrazione climatica in tutte le sue fasi e da tutte le angolazioni. Le soluzioni possibili sono numerose, sostiene Rushati Das di Climate Action Network South Asia: è essenziale innanzitutto identificare il problema di fondo e stimare il danno e il risarcimento, i governi dovrebbero poi assicurare l’accesso ai sussidi pubblici ai più poveri in ogni zona del Paese, associazioni e autorità dovrebbero collaborare per consentire ai migranti di acquisire competenze necessarie per ottenere un lavoro dignitoso, le nazioni in via di sviluppo dovrebbero essere sostenute da finanziamenti internazionali e affiancate nell’implementazione delle infrastrutture necessarie per gestire gli spostamenti. L’approccio da adottare è quindi quello più vicino possibile ai destinatari. Coinvolgere i migranti nei processi decisionali è la strategia che si è rivelata più efficace per comprendere le loro fragilità e necessità e scegliere insieme la soluzione migliore.

Anni fa, alla COP20 di Lima, si era immaginato di creare un istituto per coordinare gli spostamenti causati dal cambiamento climatico, che garantisse assistenza nell’emergenza, aiutasse ad organizzare le migrazioni e gli spostamenti pianificati e che compensasse i danni subiti. Tuttavia, questo proposito venne osteggiato nelle negoziazioni e un accordo non è ancora stato raggiunto, nemmeno con la COP26, nel cui documento finale non si accenna minimamente alla questione, neanche nella sezione VI, “Perdite e danni”.

Servirebbe un cambiamento radicale per permettere che spostarsi sia una scelta. In primis  i governi dovrebbero prendere impegni più ambiziosi per ridurre il proprio impatto ambientale, riducendo le cause che portano a situazioni ambientali avverse, con effetti disastrosi soprattutto per le fasce di popolazione più deboli. Bisognerebbe poi affrontare la migrazione non come un evento eccezionale, ma come una situazione fisiologica e positiva, creando opportunità di migrazione dignitose che permettano di soddisfare i propri bisogni e di realizzare i propri desideri, contribuendo anche allo sviluppo del Paese di destinazione.

“Little Amal” è dovuta diventare una bambola di tre metri e mezzo per attirare l’attenzione dei grandi della Terra. “Little Amal” è la voce dei più vulnerabili, dei più piccoli, degli innocenti: ascoltiamola, facciamoci toccare dal grido silenzioso dei milioni di sfollati che chiedono giustizia, che chiedono il coraggio di poter sperare in un futuro nel proprio Paese o in quello in cui hanno deciso di vivere.

Fonti e ulteriori approfondimenti: 

Conferenza nella Blue zone: “Climate Induced Migration in South Asia – impact of loss and damage”, disponibile su YouTube

Conferenza nella Green Zone: “Migrant Justice = Climate Justice”, disponibile su YouTube

Conferenza nella Green Zone: “The Political Participation of Young Migrant Women in the Pursuit of Climate Justice”, disponibile su YouTube

Definizioni, numeri e previsioni: https://www.lenius.it/migranti-climatici/

Definizioni, trend, fonti: https://www.migrationdataportal.org/themes/environmental_migration_and_statistics

Glossario IOM su Migration, Environment and Climate Change: https://publications.iom.int/system/files/pdf/meclep_glossary_en.pdf?language=en

Global Report on Internal Displacement 2021 di IDMC: https://www.internal-displacement.org/global-report/grid2021/

Podcast del Migration Policy Institute con intervista a Manuel Marques Pereira: https://www.migrationpolicy.org/multimedia/changing-climate-changing-migration-iom-environmental-migration

IOM Strategy on Migration, Environment and Climate Change: https://environmentalmigration.iom.int/policy/iom-strategy-migration-climate-change-and-environmentNuova Zelanda e “rifugiati climatici: https://www.refugeesinternational.org/reports/2020/1/23/new-zealands-climate-refugee-visas-lessons-for-the-rest-of-the-world