Chiamatemi col mio nome (parte 2)
Per la seconda parte dell’articolo ci siamo documentati sul dibattito tra politici ed intellettuali italiani e questo è ciò che ne è risultato.
Con un comunicato stampa, il 5 dicembre 2013, la Presidente dell’Accademia della Crusca, Nicoletta Maraschio ribadisce l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali (la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata ecc.) e professioni alle quali l’accesso è normale per le donne solo da qualche decennio (chirurga, avvocata o avvocatessa, architetta, magistrata ecc.) così come del resto è avvenuto per mestieri e professioni tradizionali (infermiera, maestra, operaia, attrice ecc.). Della stessa opinione è la presidente della Camera Laura Boldrini, la quale, citando appunto la Guida dell’Accademia della Crusca, ricorda che “ogni incarico può essere declinato al femminile, non farlo è un paradosso linguistico”.
Il tema del linguaggio di genere è soggetto di dibattito già dagli anni ’60 e ’70 del Novecento, anni di “lotta” per l’emancipazione femminile, e ancora oggi non si è trovata una linea comune da seguire. I cambiamenti che le donne hanno raggiunto negli anni e che ancora oggi stanno operando nella società necessitano del supporto e del riconoscimento fondamentale del linguaggio.
Questo importante concetto è ribadito anche dalle parole della presidente Boldrini: “Il linguaggio è importante perché deve riconoscere la donna nel suo percorso negli anni. Se suona male è perchè non siamo abituati, la lingua cambia con la società, la nostra società è cambiata, quindi è giusto che cambi anche il linguaggio”.
In questo discorso la Boldrini solleva un altro problema relativo all’utilizzo delle forme al femminile per i termini che le prevedono, ovvero il fatto che spesso “suonano male”: sono grammaticalmente corretti, ma non conosciuti e quasi mai utilizzati.
“Il fatto che vice direttora suona ’male’, così mi è sempre stato detto, è solo la prova che quel mestiere è stato fatto da troppo tempo solo da maschi, anche quando non è più così – e da tempo non è più così”, scrive la giornalista Silvia Neonato nel 2009. Al problema del pregiudizio di genere è quindi possibile rimediare attraverso l’utilizzo di entrambe le forme esistenti, per i termini che le prevedono, o attraverso l’aggiunta di nuovi termini per supplire alla mancanza di un corrispondente femminile o maschile.
Rimane però importante chiarire alcuni punti: prima di tutto l’obiettivo non è quello di creare una nuova lingua, bensì sfruttare a pieno tutte le sfumature dell’italiano; in secondo luogo non bisogna pensare che che l’uso di un linguaggio “sessuato” porti automaticamente ad un miglioramento della società, ma sicuramente contribuisce notevolmente a cambiare la mentalità dei più.
In conclusione, utilizzando le parole di Cecilia Robustelli, docente di Linguistica Italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia: “Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?”
All’opposizione troviamo un personaggio che, contro le aspettative di chiunque, ha manifestato apertamente la propria contrarietà verso i nuovi termini al femminile utilizzati per le cariche politiche, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Durante il ritiro del premio De Sanctis per la saggistica, a Roma nel dicembre 2016, si è rivolto alla ministra dell’Istruzione dicendo: “Grazie al ministro Valeria Fedeli, penso che Valeria Fedeli non si dorrà se io insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ’ministra’ o dell’abominevole appellativo di ’sindaca’ “.
Dopo l’iniziale disappunto della ministra Boldrini in cui ha definito l’atto “un tradimento”, quest’ultima ha proseguito sostenendo che “il presidente Napolitano ha le sue idee [che rispetto] ma la società cambia e deve cambiare anche il linguaggio”. Napolitano, per sua controparte, ha ribadito fermamente la propria posizione in merito rispondendole: “Io continuerò a chiamarti “signora presidente” come chiamavo ’signora presidente’ Nilde Iotti”.
La disputa è poi continuata sul piano pubblico con Vittorio Sgarbi che ha postato un video in cui accusa la presidente della Camera Laura Boldrini della volontà di “voler cambiare la grammatica italiana”. Un affronto a freddo, virtuale dove il critico d’arte ha ribadito il concetto espresso inizialmente da Napolitano, ma come ci si poteva ben aspettare con toni ben più aspri, commentando così: “Ora cara presidenta Boldrina, sia precisa, ci dica chi è lei… lei è la grammatica? Lei stabilisce che non è giusto chiamare sindaco una sindaca e ministro una ministra? Ai ruoli non si applicano i sessi, rimangono tali e quali. Come la persona rimane persona anche quando si riferisce ad un uomo, non diventa persono. E tu sei una zucca vuota, una capra… fortunatamente non un capro”. Un uso violento e per nulla controllato di parole offensive e svilaneggianti, ormai marchio di fabbrica di Sgarbi.
Sull’account Twitter del noto critico d’arte, però, è intervenuta in controrisposta la stessa Accademia della Crusca (sopra citata) dando ragione alla “presidente”. Non solo Napolitano, non solo Sgarbi. In questa tanto ostica “faccenda” linguistica anche le donne, da sempre tanto sostenute da Laura Boldrini, le si sono ritorse contro: negli ultimi mesi, come riportato da il Giornale, si sono registrati numerosissimi ricorsi delle dipendenti donne contro la presidente della Camera. Come noto, da qualche mese la Boldrini ha messo al bando i termini maschili “sindaco”, “ministro”, “bibliotecario” e “funzionario” quando sono riferiti a donne tanto che dal 25 settembre 2017 le dipendenti della Camera sono entrate in possesso dei nuovi badge con la declinazione del loro impiego al femminile.
Il problema è, come affermato da Libero, che le donne che rivestono il titolo di “segretari parlamentari” si sono rifiutate di essere bollate come “segretaria”, perché quella “è una cosa diversa”, definendo il provvedimento come un grave passo indietro verso definizioni giudicate discriminatorie e ricordando “che la denominazione al maschile del termine segretario scaturisce da rivendicazioni sindacali volte a superare una concezione riduttiva di una professionalità che, fino ad allora, veniva associata alla funzione di persona tuttofare”.
Anche i sindacati interni si sono opposti alle nuove direttive linguistiche affermando che “il rispetto della parità di genere non può comportare l’ imposizione della declinazione al femminile della professionalità, in presenza di una diversa volontà della lavoratrice” ed offrendosi così nel garantire “assistenza legale alle dipendenti in relazione alla questione del cambio del cartellino secondo le declinazioni al femminile”. Oltre alle proteste delle lavoratrici, agli insulti di Sgarbi e alla ferma e tradizionalista presa di posizione di Giorgio Napolitano, anche la società civile si è espressa su questo tema, con posizioni molto differenti (a volte senza risparmiarsi commenti volgari, ingiuriosi ed estremamente sessisti) e, inaspettatamente, un gran numero di donne contrarie a tale novità linguistica.
E con questo abbiamo concluso la parte di indagine e argomentazione riguardo al problema del genere nel linguaggio. Tra tre giorni pubblicheremo il capitolo finale di questa rubrica con le opinioni personali che abbiamo tratto da questa ricerca. E voi che ne pensate?