Foto di Andrea Villa

Revenge porn, perché il sesso non è un reato

Circa un mese fa è iniziato il processo che vede protagonista una giovane maestra d’asilo, licenziata dopo che alcune sue foto intime sono state diffuse su una chat dall’ex ragazzo. Tre maestre di scuola primaria di Torino in risposta alla vicenda hanno realizzato grandi manifesti in cui compaiono i loro corpi nudi accompagnati dall’hashtag #teachersdosex.

Di Carlotta Zaccarelli, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

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L’incubo della ragazza è iniziato nella primavera del 2018, quando lo screenshot di una sua foto intima, diffusa dall’ex ragazzo sulla chat del calcetto, è stata vista dal padre di uno dei piccoli alunni dell’asilo, che l’ha riconosciuta come maestra del figlio. Di chat in chat e di bocca in bocca, l’accaduto è arrivato alla preside della scuola che ha spinto la giovane alle dimissioni. L’udienza, iniziata il mese scorso, vede imputate l’ex direttrice della scuola materna, che secondo l’accusa l’aveva sottoposta a una gogna pubblica, e una mamma accusata di aver girato a sua volta quelle immagini hot.

Due cose sono chiare. La maestra d’asilo ha denunciato l’accaduto e ha fatto bene. I comportamenti del ragazzo, dei genitori degli alunni dell’asilo e della preside sono quantomeno denigrabili. Tutti hanno concorso a commettere e incentivare una pratica conosciuta come revenge porn, ossia la diffusione non consensuale di materiale erotico su Internet. In altre parole, revenge porn è quando le foto, i video, i vocali e qualsiasi altro contenuto destinato all’uso esclusivo della persona alla quale è inviato è condiviso da questa persona e/o da altre su social, siti, app di messaggistica online senza che la persona che li ha prodotti dia il proprio consenso pieno e informato.

In Italia, la consapevolezza di questo fenomeno non è molto diffusa ma le sue dimensioni e ripercussioni non sono da sottovalutare. Anzi. Lo scorso aprile, un’inchiesta di Wired ha descritto le caratteristiche di una chat Telegram dedicata allo scambio di materiale pedo-pornografico nel cui contesto si consumavano anche atti ascrivibili al revenge porn. Il gruppo contava oltre 43.000 iscritti che si scambiavano circa 30.000 messaggi ogni giorno. La maggior parte contenevano foto e video amatoriali (talvolta di natura pedopornografica) oppure erano richieste di materiali e trattative per il loro scambio. A questo si aggiungevano – e qui la faccenda diventa dolorosamente inquietante – richieste di rovinare la vita a ex partner: gli uomini postavano foto delle loro vecchie compagne fornendone nome, numero di telefono o recapiti social e chiedendo esplicitamente agli altri utenti di aggredirle verbalmente attraverso piogge di messaggi che avrebbero avuto immancabilmente riferimenti sessuali e un linguaggio violento.

E questa dinamica si ripeteva e si ripete uguale negli altri gruppi, Telegram e non, che hanno la stessa natura: collegate a quella in oggetto nell’articolo di Wired, c’erano almeno altre 21 chat. Negli ultimi sei mesi (maggio – novembre 2020), il numero di gruppi di questo tipo è triplicato. La loro eliminazione da parte delle piattaforme non basta, perché non è definitiva: nella maggior parte dei casi, in testa alla chat è fissato un messaggio che contiene il link a un altro gruppo gemello, ossia una chat in cui confluiscono i contenuti della principale e attivata in caso di rimozione di quest’ultima. In questo modo, foto e video non sono spariscono e gli utenti possono continuare ad accanirsi sulle donne e a sfogare bestialmente le loro ossessioni sessuali.

La polizia postale ha infatti definito il revenge porn come uno stupro virtuale, tanta è la violenza e l’assenza di empatia nei confronti delle vittime. Amnesty International ha rilevato che una donna su cinque subisce molestie o minacce online. Le vittime di questo meccanismo riferiscono di sentirsi spaventante, violate, in pericolo, morte dentro. Affermano anche che il terreno più fertile per le vere e proprie campagne di abusi perpetrate nei loro confronti sono i social.

Queste considerazioni aprono la via ad alcune importanti riflessioni. Prima di tutto, la dimensione culturale. La libertà con cui questi uomini si sentono in diritto di deridere e abusare delle donne, indipendentemente dal rapporto che le lega a loro e dalla loro età, è sintomo della mentalità maschilista che ancora regola la società e della permissività che ancora, come società, accordiamo a certi comportamenti maschili. In altre parole, la donna è eccessivamente sessualizzata e non si interviene a riguardo.

Non solo: il sesso è ancora un argomento riservato a conversazioni a mezza voce per non farsi sentire dalle persone perbene, per non offendere la morale comune. Oppure è oggetto di conversazioni sguaiate, volgari, che contribuiscono alla reificazione dei corpi. Il sesso, come centro di conservazioni intelligenti, non esiste. Sarebbe ora di iniziare queste conversazioni intelligenti, però. Perché parlare in modo consapevole del sesso significa cominciare a risolvere il problema della violenza sessuale. Il punto di partenza è un’educazione sessuale completa, composta da informazioni pratiche e da una formazione emotiva rispetto al tema. Per cui, spiegare in cosa consiste il rapporto sessuale, cosa sia la contraccezione e come usare i suoi diversi metodi deve andare di pari passo all’educazione sul consenso, in modo che diventi naturale pensare che qualsiasi scambio sessuale (diretto o indiretto) deve essere preceduto dal consenso pieno e informato delle persone coinvolte. È utile, in questo frangente, far conoscere le conseguenze della mancanza di consenso per sottolineare quanto possano essere gravi, quanto le vite private e pubbliche delle persone possano essere vulnerabili alla questione. Le testimoniane delle vittime di revenge porn potrebbero allora rivelarsi fondamentali.

Parlare della situazione serve inoltre almeno altri due scopi. Da una parte, si dice esplicitamente che il problema esiste e che deve essere affrontato in quanto tale, ossia in quanto aspetto critico del vivere in comune. Dall’altra, riconosce a chi è rimasto intrappolato in un meccanismo perverso il diritto al dolore: tacere la questione equivale infatti a negare alle vittime la possibilità di esprimere la propria frustrazione, la propria paura, il proprio soffrire. Le pone in una condizione di mutismo che le definisce come colpevoli. È come dire loro che la situazione che hanno vissuto è talmente fuori dal comune che deve per forza essere qualcosa che si sono cercate, altrimenti non sarebbe mai successa. È, questa, la dinamica di colpevolizzazione della vittima che ricorre anche nel caso dello stupro: la vittima è la prima responsabile del crimine commesso contro di lei. Sradicare una simile idea (che, francamente, fa salire il vomito) è essenziale. Bisogna dire e insegnare che il sesso è un atto naturale a cui tutt* coloro che vogliono hanno diritto. Ancora una volta, è compito dell’educazione abbattere certi preconcetti e superare certe omertà. Così come è compito della legge punire chi sbaglia: anche quella è una forma di educazione.

In Italia, il regolamento sul revenge porn è arrivato solo nel luglio 2019 e dopo accesi dibattiti nelle istituzioni. Il provvedimento, inserito nel cosiddetto Codice rosso che punisce i reati di genere e la violenza contro le donne, fissa la durata della reclusione e l’ammontare delle multe per chi perpetra il reato e stabilisce una serie di aggravanti in relazione all’età e allo stato psico-fisico delle vittime o alla natura del rapporto tra chi commette e chi subisce il crimine. Accelera i tempi delle indagini. Considera colpevoli non solo chi diffonde per primo i contenuti intimi di un’altra persona, ma anche chi li condivide su Internet. Nonostante la norma sia abbastanza dettagliata, alcuni avvocati hanno sottolineato le difficoltà che implica. Prima tra tutte, la velocità delle indagini: la giustizia italiana non avrebbe a disposizione abbastanza personale per essere così rapido come voluto da regolamento. Altra questione pendente è la certezza della pena per i colpevoli. E poi c’è l’incognita della volontà di denuncia: quante vittime si sentiranno sufficientemente tutelate da denunciare una violazione grave della loro intimità? Ritorna il discorso sull’educazione culturale al sesso.

Per precisarla ulteriormente è bene sottolineare che, quando si parla di educazione, se ne parla in senso lato perché non si insegna solo nelle aule scolastiche. Formare gli individui è compito anche della società nel suo complesso, con le parole e con gli esempi. Un esempio importante, da questo punto di vista, lo hanno fornito tre maestre di scuola primaria di Torino in risposta alla vicenda della maestra d’asilo licenziata. Le tre donne hanno contattato l’artista conosciuto come Andrea Villa e, insieme a lui, hanno realizzato grandi manifesti in cui compaiono i loro corpi nudi accompagnati dall’hashtag #teachersdosex: le maestre, come qualsiasi altro essere umano, fanno sesso e hanno diritto a farlo senza che la loro intimità sia violata e senza rimanere vittime di una gogna pubblica che sconvolga loro la vita.

I manifesti sono stati appesi a Torino, sotto gli occhi di tutti. È importante, questo gesto di solidarietà. Per la maestra, per le donne (soprattutto quelle che si ostinano a colpevolizzare le altre, rimaste vittima di revenge porn), per noi – per tutti noi. È un’occasione per educarci e per riflettere proposta da tre maestre che hanno capito l’importanza di dare l’esempio fuori dalla classe. Facciamone tesoro e non lasciamo che la via da loro aperta rimanga inesplorata.