Miti dall’insensata esistenza: razza, purezza e nemico
di Rachele Baccichet, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile
All’inizio del mese scorso si è tenuta la seconda edizione del RiFestival, evento organizzato da alcuni studenti volontari dell’Università di Bologna in collaborazione con l’associazione Un altro mondo è possibile. In queste quattro giornate si sono susseguiti incontri, conferenze, lectio magistralis tenuti da docenti e intellettuali di tutt’Italia che hanno affrontato diversi temi, aventi però un filo rosso che li collegava tra loro e riassunto nella parola “potere”. Temi che hanno lo scopo di sensibilizzare sul concetto di uguaglianza.
Proprio il tema dell’uguaglianza è stato affrontato anche dal professor Marco Aime, antropologo e scrittore italiano, nella videoconferenza che ha tenuto domenica 14 aprile intitolata “Razza e identità (e ritorno)”. Un’uguaglianza che viene subito meno quando si comincia a parlare di razze.
La società occidentale si è formata su un etnocentrismo imperante che lo stesso Aime considera una “malattia endemica”. L’etnocentrismo afferma una visione del mondo in cui alcuni sono considerati “più uomini” di altri, fino a un livello in cui “gli altri” non siano proprio reputati uomini (uso la parola uomini e non esseri umani proprio perché questa modalità di concepire il mondo nasce da uno substrato sociale fortemente maschilista e patriarcale).
Altro, ma cos’è l’altro? Esiste veramente un altro da noi? O forse è proprio l’etnocentrismo un modo per creare l’altro, il diverso, passando verso se stessi ed attraverso la riconoscibilità di una semplice differenza? Ci sono diverse tipologie di divisione tra gli esseri. Una è quella culturale, che può essere facilmente superata o cambiata (basti tornare indietro e guardare all’antica Grecia o all’Impero Romano). L’altra è di tipo naturale ed è proprio questa che ha generato profonde ferite nella storia dell’essere umano. Se consideriamo delle differenze umane come radicate nella natura stessa e le dotiamo di valori diversi fra loro stiamo affermando che queste non possano cambiare. Finiamo così a categorizzare in maniera aprioristica attraverso dei parametri di giudizio e una visione unilaterali, quelli occidentali.
Con Linneo, nel ’700, venne a costituirsi una prima classificazione del mondo su principi scientifici. Categorizzazione del mondo sia nel suo aspetto vegetale e animale, che in quello umano. Ma proprio qui emerge una differenza sostanziale, perché lo scienziato quando dovette classificare piante e animali non si basò su alcun giudizio ma su meri e precisi tratti scientifici. Nella categorizzazione dell’essere umano, invece, emersero giudizi diversi in base alle aree geografiche o i gruppi sociali. Cominciò così a delinearsi progressivamente il concetto di razza che consiste in una divisione naturale-biologica riguardante l’aspetto estetico. La natura determina così la cultura, l’atteggiamento.
Fu a metà dell’800 che emerse uno dei primi casi di razzismo scientifico, precisamente con il saggio “Sull’ineguaglianza delle razze umane” di Joseph Arthur in cui viene affermata l’esistenza di differenze inconciliabili tra le diverse razze umane, il declino e la decadenza delle varie civiltà quando avviene una mescolanza di “razze” ed infine, come se non bastasse, la superiorità assoluta della razza Europoide caucasica (ovvero quella dell’uomo bianco). Da questa teoria e dalle politiche basate su essa prese forma il razzismo.
Questa concezione razzista verrà finalmente smentita a partire dal 1953 con la scoperta rivoluzionaria del DNA e i successivi studi che si svilupparono. Se prima le differenze fisiche (come colore degli occhi, della pelle e dei capelli) erano state da sempre considerate elementi fondamentali per caratterizzare le razze umane, nel ’900 la genetica dichiarò la scorrettezza biologica di questa tesi affermando una catalogazione degli esseri umani in base alle somiglianze determinate da una condivisione di geni.
Negli anni ’70, l’americano Richard Lewontin decise di capire se aveva senso parlare di razza. Analizzando le variazioni a livello proteico, si poteva scoprire se all’interno di una razza ci fossero elementi genici comuni. Inoltre, secondo questa ipotesi, i geni caratteristici di una razza dovevano variare notevolmente dalle altre tipologie di razza. I risultati portarono invece alla conclusione che le differenze geniche tra le varie “razze” erano soltanto del 7%, mentre c’era una grande variabilità all’interno delle singole razze (circa 85%). Questo dimostrava che di fatto tutte le “razze” derivano da un piccolo gruppo di antenati ancestrali che hanno lasciato ai discendenti una grande porzione di genoma «di base» comune, mentre solo il 7% del genoma è responsabile delle differenze somatiche tra le etnie. Una delle ipotesi più accreditate è che questi antenati siano partiti dall’Africa circa 100.000 anni fa e si siano spostati lungo i continenti, originando una discendenza di uomini con caratteristiche diverse. In questo modo, l’idea di diversità razziale su base genetica veniva meno.
“Non possiamo essere classificati in razze, ci siamo sempre mossi, la nostra è una storia di migrazioni”, queste le parole di Aime. Eppure dalla fine degli anni ’80 si comincia a parlare di “identità”. Un concetto che, nonostante declinabile in diversi modi, comincia a basarsi su un “noi” radicato a un territorio, portando alla mente un concetto di autoctonia, causa di una fossilizzazione. L’essere nato in un determinato luogo causa l’appartenenza a una determinata cultura, ed è proprio la cultura che ora diventa elemento discriminante e viene pensata in termini di razza dalle destre identitariste, secondo le quali ogni popolo ha diritto a una propria cultura e per preservare queste diverse culture bisognerebbe evitare il contatto. Da qui deriva un’idea di “purezza” e quindi la paura (che si trasforma poi in odio) che il “diverso” possa contaminarci. Completamente diverso invece è il pensiero antropologico per cui la cultura si basa proprio sulle relazioni.
In questi anni stiamo vedendo sorgere il neorazzismo, un razzismo senza razza, legato ad una serie di fenomeni successivi alla caduta del muro di Berlino: principalmente agli effetti negativi della globalizzazione, quali l’impoverimento economico dell’Occidente, il progressivo abbassamento di livello del welfare, la società sempre più “liquida” figlia della post-modernità. Un fattore di importanza determinante fu la migrazione post anni ’80, fenomeno venne preso come “capro espiatorio”, come causa di tutti gli effetti negativi che la globalizzazione generò. C’era l’interesse di individuare un nemico a cui dare la colpa di tutto ciò e questa figura fu trovata nell’immigrato. Come? Attraverso l’uso di un certo linguaggio strategico che abusa delle parole “sbarco” e “invasione” creando nella mente l’immagine del nemico. Un impoverimento del linguaggio genera l’impoverimento dell’essere umano e l’impoverimento del pensiero il cui effetto è l’annullamento del senso di umanità.
Il punto di vista di Aime sulla creazione del “nemico” si concentra anche sulla mancata consapevolezza del proprio passato, in particolare quella degli italiani. Secondo l’antropologo il popolo italiano si è autocostruito sul mito degli “italiani brava gente” dimenticando così il suo passato storico, non facendo i conti davvero con il fenomeno dell’immigrazione italiana, del fascismo, delle guerre intraprese in Africa. Senza questa capacità di analisi del passato l’unico modo di legittimare sè e il presente è la costruzione del fantoccio di un nemico.
L’idea di razza è semplificatoria e come dimostrato ampiamente e scientificamente non si basa su dei concetti scientifici. La razza è, riprendendo le parole di Aime, “una rete che serve a togliere tante complessità che dipingono l’umanità stessa”. Ed è proprio l’idea stessa di razza che vuole limitare l’essere umano ad una precisa e sola identità, quando sappiamo benissimo che nella vita di tutti i giorni indossiamo diverse identità, alcune che non ci possiamo togliere (quelle legate alle nostre origini) e altre che invece cambiano in base al contesto in cui ci troviamo, come fossero indumenti. E se esiste un’identità, tra le tante che ci portiamo appresso ogni giorno, che deriva dalle nostre origini allora è bene ricordare, con la storia oltre che con la scienza, che il nostro passato è stato scritto dalle continue e innumerevoli migrazioni umane, che l’umanità intera è connessa e migrante.
La conoscenza, la consapevolezza, possono essere un vero antidoto contro la paura, uno scudo con cui difendersi dal razzismo ed è proprio questo che vuole ribadire e mettere in luce il progetto Identità Sconfinate dell’Agenzia di Stampa Giovanile.