«Accoglieteli a casa vostra»: da provocazione a modello di integrazione

di Edoardo Anziano, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

Cosa ci fa un prete in una casa del popolo? La domanda, ai limiti del paradossale, sembra una di quelle con cui si iniziano barzellette scontate. Eppure la questione è drammaticamente più seria di quanto appaia e una buona risposta, data da chi conosce questa storia, potrebbe essere: “Perché Vicofaro resiste!”; ma procediamo con ordine.


La chiesa di Santa Maria Maggiore a Vicofaro, provincia di Pistoia, sale alla ribalta delle cronache locali nel 2016: il parroco si mette in testa di aprire un piccolo CAS, un Centro di Accoglienza Straordinaria, nei locali della canonica. Questo prete si chiama Don Massimo Biancalani: prendendo alla lettera il Vangelo e il garbato invito ad ’accoglierli in casa propria’, riesce a ospitare dieci migranti a Vicofaro. L’intento è quello di toglierli dalla strada, per impedire che vengano ingoiati da una vita di spaccio e clandestinità.

In meno di un anno il Centro cresce esponenzialmente: gli ospiti raggiungono il centinaio. Il modello di inclusione di Don Biancalani mira a dare un futuro, anche professionale, ai migranti; a ottobre 2017 viene inaugurata, sempre nei locali della parrocchia, la ’Pizzeria del rifugiato’: dà lavoro a 12 ospiti del centro, promuove attivamente la loro integrazione e li responsabilizza. Il rivoluzionario esperimento di Vicofaro dimostra concretamente come sia possibile radicare l’accoglienza del ’diverso’ nel tessuto sociale, come rendere di nuovo ’vita’, nel senso più pieno del termine, la sopravvivenza di chi è costretto a lasciare il proprio paese.
Nonostante le apparenze, una comunità come quella creata da Don Massimo non si culla nel sogno di una leggera utopia. Il suo sviluppo è continuamente martoriato da minacce, proteste, denunce. Ma anche da irregolarità riscontrate e arresti. Da cavilli burocratici e da reali problemi di sicurezza. Da pregiudizi quanto da strumentalizzazioni.


Superando continue difficoltà, ’il prete dell’accoglienza’ prosegue la sua concreta opera di integrazione. Anche quando, sul finire dell’agosto scorso, viene decretata la chiusura del CAS fino alla messa in sicurezza dei locali, Don Biancalani non demorde: tante e diverse realtà toscane lo invitano a portare la sua testimonianza e quella dei ragazzi che accoglie, organizzano cene e incontri di solidarietà, per permettere a Vicofaro di resistere, di continuare a essere modello alternativo di accoglienza e umanità.
Le testimonianze dei ragazzi di Vicofaro sono forti, violentano chi le ascolta, attonito: sono storie di adolescenti, fuggiti da paesi di cui ignoriamo persino la collocazione geografica, giunti in Italia passando per i lager della costa libica; sono storie di lotta per la sopravvivenza, e sono storie di guerra fra poveri; sono storie di lavoro nero e sfruttamento, nelle industrie tessili della piana fra Prato e Pistoia: sette giorni su sette, per due euro e cinquanta centesimi all’ora; sono storie umane, di chi ogni giorno chiama la famiglia lontana, e dice che tutto va bene, per non farli preoccupare.


Abbiamo avuto il privilegio di conoscere le storie di Babucar, 22 anni, gambiano e di Ibrahim, 20 anni, anche lui partito dal Gambia, da solo, a 14 anni. La madre lo ha lasciato andare, non avrebbe avuto nessun futuro. Adesso, grazie a Don Biancalani, ha di nuovo una speranza.
Ad ascoltare queste testimonianze di ’non vita’ ci sono di volta in volta case del popolo gremite, interi quartieri che accolgono chi, come Don Massimo, ha fatto dell’accoglienza del prossimo una scelta di vita. Osservando questi momenti di condivisione, qualcosa stona, stride: sul palco giovani e giovanissimi parlano del loro quotidiano a una platea di ultrasettantenni. La partecipazione dei giovani, dei coetanei di chi racconta le cicatrici che porta sul volto, è prossima allo zero.


Non domandiamoci, per tornare all’inizio della nostra storia, per quale motivo un prete abbia messo piede in una casa del popolo. Non giudichiamo dall’esterno e con categorie tradizionali. Chiediamoci piuttosto: Quale messaggio porta questo parroco? Fermiamoci, ascoltiamo, mettiamoci nelle scarpe logore di chi attraversa il deserto a piedi e il mare su una zattera. E, di nuovo, chiediamo a noi stessi: Come posso aiutare?