Le COP non possono funzionare senza attivisti

Nel caos di conferenze sempre più grandi e dispersive, organizzate in paesi ostili alla libertà di manifestare, le voci di attiviste ed attivisti si stanno affievolendo e rivolgendo altrove. Le Conferenze delle Parti sul clima però non possono funzionare senza l’ambizione imposta dall’attivismo.

Di Emanuele Rippa

Partiamo da qualche mese fa.

Sono le 14 di domenica 15 ottobre e, a Milano, la sala centrale dello spazio pubblico autogestito Leoncavallo inizia a svuotarsi. Dopo quattro ore la plenaria conclusiva del World Congress for Climate Justice (Congresso globale per la giustizia climatica) sta volgendo al termine e le persone si stanno spostando verso la mensa.

Le pareti della sala, sature di storie, raccontano le vite passate dall’8 settembre del 1994, quando l’ex stamperia di via Watteau viene occupata. Sono storie di lotta e di resistenza, tentativi di non sottomettersi alla città e alle sue regole, al capitalismo e alla sua omologazione.

Poche ore dopo, le centinaia di sedie rosse, che per tutta la mattina erano state disposte in cerchi concentrici, sarebbero state impilate nuovamente in colonna e spinte ai lati della stanza.

Su quelle sedie erano seduti rappresentanti dell’attivismo ambientale radicale da tutto il mondo, dall’Ecuador all’Uganda, con uno scopo ben preciso: quello di “aprire uno spazio di confronto tra movimenti climatici, attivisti e intellettuali esplicitamente anticapitalisti di tutto il pianeta.”

Facendo un salto temporale di un paio di mesi arriviamo al presente, qualche giorno fa infatti, a Dubai, si è conclusa la COP28. La più importante e seguita conferenza internazionale sulla crisi climatica, dove le parti dell’UNFCCC, la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, si ritrovano ogni anno per negoziare le strategie per affrontarne gli effetti a livello globale.

Di quello che è successo a Milano ne parliamo oggi, perché c’è una precisa connessione tra quelle calde giornate di metà ottobre, e quello che è successo alla COP28 negli Emirati Arabi Uniti.

Le pareti dei padiglioni dell’Expo di Dubai non erano ricoperte di graffiti, e i delegati non si sedevano su sedie rosse in plastica, ma le due storie sono interconnesse, procedono influenzandosi a vicenda.

Le Conferenze delle Parti (COP) delle Nazioni Unite hanno un estremo bisogno degli attivisti per funzionare, nessun altro grande processo globale infatti prova a dare così tanto spazio alla società civile. Questa presenza ha uno scopo preciso, osservare, serve perché i leader e i negoziatori sappiano di essere monitorati, e si ricordino chiaramente il motivo della loro presenza e del loro lavoro. Senza attivisti e società civile, in un contesto come quello delle COP, immersi in centinaia di incontri, eventi e circondati da migliaia di persone che corrono in giro, è molto facile perdersi, dimenticarsi i motivi profondi per i quali tutto questo esiste: salvare il maggior numero di vite possibile.

Le COP non sono perfette, la loro struttura, che nasce per accontentare tutte le Parti, fa si che le evoluzioni all’interno del processo siano sempre molto lente. E questo non può che infastidire chiunque sia consapevole dell’urgenza necessaria per l’azzeramento delle emissioni. Avere fiducia nelle COP è difficile, è difficile perché confrontare il numero delle conferenze svolte ai risultati raggiunti, avendo consapevolezza di quello che servirebbe fare, non può che preoccupare enormemente.

Negli ultimi due anni poi le COP sono state organizzate in Paesi (Egitto ed Emirati Arabi Uniti) dove i diritti civili sono abitualmente repressi e dove non esiste una società civile libera di manifestare.

A Glasgow, nel 2021, scesero in corteo per le strade della città più di 100 mila persone, l’anno scorso, a Sharm el-Sheikh, un agglomerato di resort nel deserto cosparso di poliziotti, non è stato permesso niente del genere. Lo stesso quest’anno, nessuno spazio alla società civile al di fuori delle porte del grande centro congressi.

Come se non bastasse, la presidenza della conferenza è stata assegnata a Sultan Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera di stato degli Emirati Arabi Uniti, ADNOC. Un petroliere a presiedere la conferenza sul clima.

E la situazione non accenna a migliorare, l’anno prossimo la conferenza verra ospitata a Baku, capitale dell’Azerbaigian, un’altro paese fortemente dipendente dai combustibili fossili.

Una dopo l’altra, queste scelte stanno lentamente erodendo la credibilità delle conferenze, facendo scricchiolare la fiducia delle popolazioni e degli attivisti di tutte le parti del mondo.

Stiamo perdendo una parte fondamentale di questo processo, e questo è estremamente preoccupante.

Per questo parliamo di Milano, perché anche quelle centinaia di attiviste e attivisti determinati a dialogare per costruire una prospettiva ideologica comune, alle COP non ci vogliono più andare. Le stanno iniziando boicottare, insieme a moltissimi altri movimenti ed attivisti, allo slogan “BoyCOP”.

L’obiettivo è legittimo, rendere evidenti le contraddizioni del processo, rifiutarsi di prendere parte a conferenze che, anno dopo anno, si dimostrano sempre meno efficaci nell’affrontare le cause strutturali del problema: un sistema economico capitalista ed estrattivista basato sui combustibili fossili.

Oggi però viene facile pensare che il boicottaggio non stia avendo gli effetti desiderati. Mentre gli attivisti ambientali si rifiutavano di partecipare, alla COP di Dubai si è registrato il numero di presenze più alto di sempre. Più di 100 mila persone.

Gli spazi lasciati vacanti sono stati riempiti, tra gli altri, anche da lobbisti dell’industria dei combustibili fossili, quest’anno presenti in numeri record, 2456 secondo Global Witness (l’anno scorso erano 636). L’effetto più rilevante del boicottaggio è stato quindi quello di lasciare spazio, di permettere agli oppositori della transizione di tirare un respiro di sollievo. Di poter operare con qualche preoccupazione in meno.

Molte e molti di questi attivisti si sono trovati a Casanare, in Colombia, dove si è svolto l’Earth Social Conference, il controvertice di questa COP.

I temi trattati dal controvertice sono di vitale importanza, vanno dal tentativo di creare una visione per un mondo post capitalista, a quello della crisi climatica nel contesto della guerra in Medio Oriente.

Sono temi e visioni che un processo come quello delle COP non si può permettere di perdere. Se vogliamo avere delle speranze di invertire la rotta e salvare l’umanità dal collasso climatico, dobbiamo assolutamente trovare il modo di riportare queste voci nel dibattito delle COP, farle ascoltare ai negoziatori e ai ministri, mantenendo la pressione costante, per ricordargli qual è la posta in gioco: la vita umana sulla Terra.