COP28: Loss and Damage fund, dove eravamo rimasti?

Il Loss and Damage Fund è uno strumento che nasce già un anno fa a Sharm el-Sheikh nella sua forma più embrionale. Spetta tuttavia alla COP di Dubai elaborarne le specifiche e i dettagli operativi. Per comprendere le sfide del presente, dunque, è utile volgere lo sguardo indietro e analizzare in che modo si è giunti a parlare di questo fondo. 

Di Federica Baldo

Fare il punto della situazione

Uno dei cinque grandi fulcri tematici attorno ai quali ruota l’agenda politica della COP28 è il cosiddetto Loss and Damage Fund. L’origine di questo provvedimento risale alla 27esima Conferenza delle Parti tenutasi lo scorso anno in Egitto, dove il raggiungimento di un accordo proprio riguardo a questo tema è stato considerato il grande traguardo di quell’edizione. 

Il fondo in questione è stato elaborato nell’ambito delle cosiddette politiche di adattamento ai cambiamenti climatici, ovvero quella categoria di provvedimenti volti a far fronte alle conseguenze del climate change con le quali già ci troviamo a fare i conti e che non si è stati in grado di prevenire. Parliamo dunque di un intervento a valle e non a monte del problema. 

In cosa consiste praticamente?

In Egitto tutte le Parti della Conferenza sono convenute sulla scelta di istituire un fondo finanziario appositamente a disposizione delle least developed countries, i paesi meno sviluppati, che li sostenga economicamente nel dispendioso processo di adattamento ai cambiamenti climatici in quanto nazioni in assoluto più colpite dagli effetti di questi ultimi. L’obiettivo è aiutare i paesi più poveri del globo a far fronte alla riparazione in termini monetari delle perdite (loss) e dei danni (damage) inflitti ai propri sistemi umani e naturali dalle alterazioni del clima globale. 

Come si è giunti a questo accordo?

Il raggiungimento di questa decisione è stato reso possibile grazie alla straordinaria determinazione con cui il gruppo dei G77+Cina ha affrontato i tavoli negoziali e alla posizione estremamente compatta e forte con cui ha fatto valere le proprie richieste. Una tale coesione interna al gruppo dei paesi in via di sviluppo globali si è vista a Sharm el-Sheikh per la prima volta nella storia delle Conferenze delle Parti. A tal proposito il ruolo assunto dall’Alliance of Small Island States (AOSIS) già a partire dal 1991 nell’ostinata e perseverante richiesta di un simile meccanismo finanziario ha condotto e guidato nel raggiungimento di questo storico turning point.

La presentazione della questione come un make-or-break issue, ovvero una faccenda dal cui esito dipendevano le sorti dell’intera conferenza, e il sostegno da parte della società civile e dei media alla causa, sono stati fattori estremamente decisivi. Tutto ciò ha contribuito alla narrativa che la decisione riguardo al fondo fosse lo snodo fondamentale dell’intera COP27, spingendo così il gruppo dei paesi sviluppati (G20) al consenso.

Una decisione lasciata a metà (o anche meno)

Come già anticipato, la 27esima edizione ha decretato la necessità di istituire un fondo, senza tuttavia addentrarsi nella formulazione di alcuna specifica strutturale e procedurale. Tutti questi aspetti molto spinosi ma di vitale rilevanza per l’esistenza stessa del fondo, di fatto lasciati irrisolti in Egitto, saranno quest’anno sui tavoli negoziali della COP28 di Dubai. 

La 28esima Conferenza delle Parti si aprirà con un’agenda fitta di obiettivi tra i quali spicca la necessità di tradurre in concreto e rendere operativa una volta per tutte questa idea di un fondo ancora embrionale, intangibile e inconsistente.