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COP28: Le trappole del Sultano

La COP28 è iniziata da soli sei giorni ma la presidenza del Sultano Al Jaber si è già dimostrata tanto persuasiva quanto ambigua e spregiudicata. Qualche spunto per non cadere a piedi pari nelle trappole del Sultano. 

Di Viola Ducati

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Tutto parte dal discorso inaugurale del Sultano Al Jaber, il primo giorno di Conferenza ONU sul Clima (COP28) di Dubai. Si tratta di un vero e proprio programma: non viene fatto alcun accenno all’uscita dai combustibili fossili (phase out) e neppure alla loro riduzione (phase down), mentre nel nuovo lessico promosso dal Sultano rientrano i concetti di efficienza, abbattimento delle emissioni legate all’estrazione dei combustibili fossili e, chiaramente, adattamento

La strategia di Al Jaber è chiara: intende dimostrare la buona volontà della presidenza emiratina a lavorare a valle e ai margini del cambiamento climatico e dei suoi effetti, per lasciare in secondo piano le cause a monte, cioè l’estrazione e l’utilizzo delle fonti energetiche fossili. “So che ci sono opinioni forti sull’idea di includere un linguaggio sui combustibili fossili”, dice Al Jaber. “Vi chiedo di lavorare tutti insieme. Siate flessibili. Trovate un terreno comune. Proponete soluzioni e raggiungete il consenso”. Insomma, al bando le “polarizzazioni” e gli “estremismi”, a favore di un approccio del fare concreto e pragmatico.

Quella del Sultano è una mossa strategica fatta con i guanti di velluto e sistematicamente applicata nei primi quattro giorni di COP,  dove siamo rimasti quasi storditi dagli  annunci innegabilmente importanti sulla messa in opera del Fondo per le perdite e i danni e dalle dichiarazioni su agroalimentare, salute, sviluppo delle rinnovabili e finanza climatica, spesso accompagnate da generose donazioni da parte degli Emirati Arabi Uniti. 

Adattamento a buon mercato

Fare i conti, tuttavia, è utile per non finire nelle trappole del Sultano. Come ribadito da Al Jaber in ogni occasione, gli Emirati Arabi Uniti si sono impegnati con una elargizione di 100 milioni di dollari a favore del Fondo per le perdite e i danni. Ma quanti sono i milioni di dollari che gli Emirati mettono in tasca ogni anno con la produzione e la vendita di petrolio e gas? ADNOC (Abu Dhabi National Oil Company), l’azienda petrolifera di Stato di cui Al Jaber è amministratore delegato, ha chiuso il proprio bilancio 2022 con un utile netto di 802 milioni di dollari per la sola attività di estrazione. Una cifra che ridimensiona la donazione, pur significativa, di 100 milioni di dollari, a maggior ragione visto che quest’ultima è una volta tantum, mentre i profitti di ADNOC sono annuali, e in forte crescita. A incrinare l’immagine degli Emirati come campioni della lotta climatica, infatti, sono soprattutto i progetti di sviluppo messo in campo per i prossimi anni. Stando all’analisi condotta dalla ONG tedesca Urgewald attraverso il suo database GOGEL (Global Oil & Gas Exit List), ADNOC sta lavorando per aumentare la propria produzione di petrolio e gas equivalente a 7,5 miliardi di barili di petrolio, il 90% dei quali dovrebbe rimanere sotto terra per soddisfare lo scenario “zero emissioni” stabilito dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (International Energy Agency, IEA), che prevede che il mondo raggiunga emissioni nette di carbonio pari a zero entro il 2050. Solo il 10% dell’espansione di Adnoc è compatibile con lo scenario dell’IEA . L’IEA ha anche dichiarato che l’obiettivo del 2050 prevede che non vengano approvati nuovi progetti petroliferi e di gas dopo il 2021, ma il 90% dei progetti di espansione pianificati da Adnoc sono stati avanzati dopo questa data. 

Due pesi e due misure

Questi numeri parlano da soli. Va bene spingere sull’adattamento, a patto di non toccare la produzione di combustibili fossili. In altre parole: sì al pragmatismo, dove costa meno e fa meno male, ma sì anche all’inattivismo nel campo della mitigazione, dove sarebbe inevitabile mettere in discussione lo status quo. Nel caso ci fosse rimasto qualche dubbio, però, ci ha pensato il Sultano stesso a fare chiarezza: “Non c’è nessuna scienza o scenario che dica che l’eliminazione graduale dei combustibili fossili sia ciò che permetterà di raggiungere l’obiettivo 1.5”, ha detto il 21 novembre scorso in una chiamata Zoom con Mary Robinson, Presidente del gruppo Elders ed ex inviata speciale delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico, diffusa dal Guardian pochi giorni fa. Come ha scritto Ferdinando Cotugno nella sua newsletter Areale, in questa COP sembra che la presidenza emiratina sia determinata a “svuotare ogni verità da dentro”. 

Le istruzioni del Sultano per ridurre le emissioni senza toccare i combustibili fossili

Leggendo i piani di sviluppo di ADNOC è difficile pensare che gli Emirati Arabi siano seriamente intenzionati ad allontanarsi dai combustibili fossili, fosse anche gradualmente. È più probabile che nel futuro a breve e medio termine vengano investite importanti risorse per implementare misure di efficientamento e sviluppare tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio, con l’obiettivo di ridurre le emissioni climalteranti connesse alla produzione di petrolio e gas. Si inserisce in questa strategia l’annuncio di sabato scorso della Oil and Gas Decarbonisation Charter, un piano congiunto degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita per ridurre a zero le emissioni della produzione di combustibili fossili entro il 2050. Il piano, ad oggi, coinvolge 50 aziende del gas e del petrolio, che rappresentano complessivamente solo un terzo della produzione totale mondiale. Gli impegni di riduzione delle emissioni sono su base volontaria e non sono previste sanzioni in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. Ma ci sono ulteriori aspetti critici: il pacchetto non copre la maggior parte dei gas serra che derivano dalla combustione dei prodotti petroliferi e del gas da parte dei consumatori finali; mancano inoltre obiettivi a breve termine per la riduzione delle emissioni. L’aspetto più grave, però, è la totale assenza di riferimenti a phase out o phase down: nessuna delle società ha accettato di ridurre la produzione. Ancora una volta, la presidenza emiratina si dimostra pragmatica e ben intenzionata solo nei casi in cui gli interessi economici reali non sono messi in discussione: l’International Energy Agency stima infatti che il settore fossile dovrebbe investire 600 miliardi di dollari per dimezzare le emissioni delle sue operazioni entro il 2030 in proporzione alla sua produzione energetica. Una cifra che, stando al report dell’IEA, sarebbe “solo una frazione” del fatturato record che hanno ottenuto l’anno scorso a causa dell’impennata dei prezzi durante la crisi energetica globale.

Come ha twittato la ONG Oil Change International, “non ci si aspetta che 50 aziende produttrici di tabacco risolvano il problema del cancro ai polmoni producendo sigarette in modo più efficiente”.

La posta in gioco di questa COP

Il tema della mitigazione sta venendo annacquato e oscurato dalla quantità di dichiarazioni che si succedono ogni giorno in pompa magna. Il potere contrattuale dei leader di tutto il mondo appare indebolito, vista l’arma negoziale – il petrolio e il gas, va da sé – nelle mani degli Emirati. Quali sono le possibilità che in questa COP si discuta davvero di “eliminazione graduale” dei combustibili fossili? Soprattutto: possiamo ragionevolmente aspettarci che nel documento finale, il risultato più concreto e più importante della COP, ci siano anche le parole “phase out”? Qualche segnale positivo c’è stato. Più di 100 paesi africani, europei, del Pacifico e dei Caraibi sono a favore di un’eliminazione graduale dei combustibili fossili. Anche gli Stati Uniti, il più grande produttore mondiale di petrolio e gas, sono favorevoli a un’eliminazione graduale. Altri, come la Russia, l’Arabia Saudita e la Cina, respingono la richiesta. Entrambe le opzioni sono sul tavolo di questa Conferenza. Siamo di fronte a una partita di scacchi dove uno degli sfidanti ha iniziato a giocare con qualche pezzo in meno. Difficile portare a casa la vittoria. Ad oggi, però, l’esito non è ancora scritto.