Tagliare i tentacoli dell’industria fossile: il ruolo della ricerca
Gli esperti si fanno sentire con una lettera aperta contro il finanziamento da parte dell’industria del fossile alla ricerca sul cambiamento climatico. In parallelo una campagna per responsabilizzare il mondo della comunicazione: nel mondo anglosassone si compattano le fila di chi dice basta alle lobby oil&gas.
di Irene Trombini, articolista di Agenzia di Stampa Giovanile
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La transizione ecologica oggi è un elemento imprescindibile delle agende politiche a livello globale, che negli ultimi anni si sono confrontate con sempre più frequenza con gli impatti e con la gestione del rischio legati agli eventi estremi o al lento e inesorabile innalzamento del livello del mare.
La transizione ecologica oggi è diventata ormai visibilmente necessaria ma nonostante ciò manca ancora la spinta ad agire. Non c’è “momentum”, come si usa dire ai negoziati internazionali. Credenza comune è che se ancora non si è verificato il cambiamento auspicato per rientrare nel target di temperatura dell’Accordo di Parigi è per via dell’inevitabile inerzia davanti alla modifica del proprio stile di vita, dei tempi della burocrazia, della difficoltà dell’attuare una svolta radicale a livello di sistema, della presunta carenza di soluzioni tecnologiche.
Vero, ma solo in parte: su questo panorama si innestano infatti le influenze dei giganti dell’industria fossile, che dalla transizione hanno solo che da perderci. E che oggi, ormai impossibilitati a negare le evidenze, agiscono secondo nuovi schemi. Come spiega Michael Mann nel suo libro La nuova guerra del clima, le multinazionali dell’oil&gas agiscono su più fronti: puntano il dito sulle scelte individuali oscurando le responsabilità collettive per rimandare il più possibile il cambiamento a livello di sistema, cercano di diffondere la credenza secondo la quale sarebbe ormai troppo tardi per sottrarsi alle conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico facendo apparire insensato un qualsiasi sforzo per un’inversione di tendenza. E ancora: cercano di creare spaccature nei movimenti ambientalisti per screditarli e limitarne la forza politica, spostano l’attenzione su problemi secondari o false soluzioni per confondere le sensibilità ambientaliste, distogliendo l’attenzione dalla battaglia più urgente e da loro più temuta, quella per la riduzione delle emissioni.
Strategie così subdole e meschine necessitano allora di risposte chiare per mantenere salde le priorità e di sforzi per creare una comunità ambientalista unita che crede nella possibilità del cambiamento e sa trasmettere speranza ma anche di azioni concrete per limitare direttamente l’influenza delle corporations. Su questo fronte si è mossa di recente la campagna Fossil free research con la pubblicazione di una lettera aperta che chiede alle università del mondo anglosassone di recidere i legami con le industrie legate ai combustibili fossili.
Nel documento, firmato da cinquecento e più membri delle università, tra cui personalità di spicco della scienza del clima, si evidenzia la possibilità di “compromettere la libertà accademica dei ricercatori” e mettere in pericolo la reputazione della scienza. Il rischio infatti è quello di rendersi complici di greenwashing o, peggio, di fornire base scientifica a false soluzioni posticce, in chiara contraddizione agli impegni in materia di sostenbilità presi dalle università stesse. Le sigle del fossile che dichiarano di essere tra i più grandi finanziatori della ricerca in nuove tecnologie per la sostenibilità in realtà investono percentuali irrisorie del proprio capitale in ricerca green, e il più delle volte indirizzano i propri fondi a falsi miti come il geoengeneering o sistemi di carbon capture, la cui efficacia non ha evidenza scientifica e la cui attuazione presenta problemi politici ed economici.
Secondo gli autori, ad oggi “numerose istituzioni pubbliche che si occupano di ricerca e di sanità rifiutano i soldi dell’industria del tabacco a causa della documentata diffusione, da parte di questa, di disinformazione relativamente alle conseguenze sulla salute dei propri prodotti”. Così, facendo un parallelismo, auspicano il divieto dei finanziamenti alla ricerca sul clima da parte del mondo oil&gas, che per anni ha screditato gli scienziati e ne ha sminuito i risultati a scapito delle evidenze scientifiche attingendo allo stesse stesse tattiche di disinformaizone dei produttori di sigarette.
In sintesi: niente conflitti di interesse. Sembra la base. Ma purtroppo non è così: la lettera denuncia come “numerosi studi dimostrano che il sostegno alla ricerca da parte dell’industria può portare a risultati favorevoli agli interessi dell’industria stessa […], la cui agenda è in conflitto con gli obiettivi dei progetti finanziati”. E questo, sottolineano gli autori, è un rischio che davanti all’enormità degli impatti del cambiamento climatico non possiamo permetterci. L’università non deve ammettere tra i suoi partner aziende la cui credibilità in materia di sostenibilità è nulla.
A firmare cinquecento e più membri di università o personalità di spicco del mondo accademico, come Peter Kalmus, ricercatore alla NASA e da anni in prima linea contro il cambiamento climatico, o Eric Chivian e Gary W. Yohe, vincitori di premi Nobel per la pace l’uno e per l’economia l’altro. La lettera è un ulteriore passo avanti da parte della comunità scientifica, che, guidata dagli studenti, negli ultimi anni ha messo pressione, in alcuni casi con successo, alle università perchè disinvestissero da fondi che comprendessero sigle del fossile.
Inoltre, si accompagna a un’iniziativa a cui molti dei cinquecento firmatari hanno recentemente aderito facendo sentire la propria voce anche al di fuori dell’università. Si tratta di un’altra lettera, indirizzata alle maggiori agenzie pubblcitarie degli Stati Uniti a cui si chiede di rifiutare progetti per clienti dell’oil&gas.
Nel testo si richiama il mondo della comunicazione alla responsabilità, denunciando come il lavoro scientifico si debba fare spazio tra le notizie e le campagne pubblicitarie delle compagnie di estrazione dei combustibili fossili mirate a sminuire o offuscare l’importanza dei dati e i rischi della crisi climatica. A cornice della lettera dei ricercatori, la campagna Clean Creatives, sostenuta da un gruppo di imprenditori, creativi e agenzie che il passo l’ha già fatto, impegnandosi con azioni concrete a mettere all’angolo l’industria del fossile. L’esempio più recente è la pubblicazione della black list dei clienti impresentabili, insieme allo smascheramento della collaborazione tra il gigante delle Public Relations Edelmann ed Exxon, uno dei massimi produttori di petrolio degli Stati Uniti. Anche questa campagna è riconducibile a Fossil Free Media, media lab che si impegna a sostenere iniziative in materia di sostenibilità e contrasto alle ingerenze dell’industria fossile sul fronte della comunicazione e dell’utilizzo di tool digitali.
Noi di Agenzia di Stampa Giovanile, come associazione che si occupa proprio di comunicazione ed educazione non possiamo che essere d’accordo nel sottolineare l’importanza e la responsabilità dei media nella lotta al cambiamento climatico. Una responsabilità che non si limita solo a scegliere ma a partecipare attivamente alla diffusione dell’informazione, nonostante parlare di cambiamento climatico sia difficile. E’ un argomento scomodo perchè alcune delle sue caratteristiche ormai sono inesorabili, e perchè è un problema così complesso e multilivello che ci schiaccia, ma è uno dei temi che ci è più caro e che nel nostro piccolo continueremo a raccontare.