Gloria Malerba spiega come funziona il sistema elettorale italiano in vista delle elezioni del 22 settembre

Elezioni 2022: facciamo un po’ di chiarezza

Le elezioni per il rinnovo del Parlamento italiano si avvicinano, ma l’incertezza è ancora tanta. In questo breve articolo propongo un’analisi del sistema elettorale che verrà utilizzato, evidenziando alcuni vantaggi e svantaggi da esso portati. E mi soffermerò, poi, su una questione ancora irrisolta: il voto ai fuorisede.

di Gloria Malerba, articolista di Agenzia di Stampa Giovanile

Domenica 25 settembre 2022, 46 milioni di cittadini italiani saranno chiamati alle urne per il rinnovo dei rappresentanti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Si tratta di elezioni sicuramente particolari. È, infatti, la prima volta che si voterà per un Parlamento dimezzato, si dovranno eleggere 600 parlamentari (400 deputati e 200 senatori), e la seconda volta, dopo il 1919, che si terranno le votazioni in autunno. Quest’ultimo caso sarà particolarmente rilevante, in quanto bisogna presentare la legge di bilancio entro il 15 ottobre e approvarla entro dicembre e non è ancora chiaro se quest’onere toccherà al governo Draghi attualmente in carica o al nuovo governo che verrà formato.

Ma come verrà formato il nuovo governo e quali sono le principali caratteristiche del sistema elettorale che si andrà ad utilizzare?

In generale, per sistema elettorale si intende il meccanismo che traduce i voti espressi dagli elettori in seggi in Parlamento e quello attualmente in vigore è il cosiddetto Rosatellum, adottato già nelle scorse elezioni del 2018.

Il Rosatellum è un sistema elettorale misto:

• 1/3 dei seggi sono assegnati tramite il sistema maggioritario uninominale: si divide lo Stato in più collegi e in ogni collegio diventa parlamentare chi prende un voto in più rispetto agli altri candidati;

• i restanti 2/3 dei seggi sono assegnati attraverso il sistema proporzionale: i partiti presentano all’interno di circoscrizioni più ampie le proprie liste in collegi plurinominali. I voti vengono, poi, ripartiti a tutti in maniera proporzionale, attraverso una serie di divisioni e quozienti.

Pur essendo un sistema misto, il voto previsto è unico, in ogni collegio viene eletto un solo candidato. Ciò vuol dire che non è previsto il voto disgiunto: votando il nome di un candidato, si votano anche le liste ad esso collegate.

Da una parte, questo sistema porta con sé dei vantaggi.

Ad esempio, a differenza di un sistema unicamente maggioritario, esso garantisce la rappresentatività, in quanto grazie al meccanismo proporzionale i risultati elettorali tendono a riflettere più accuratamente le vere preferenze degli elettori, poichè anche i piccoli partiti hanno maggiori probabilità di conquistare seggi.

Dall’altra parte, però, esso presenta una serie di problematiche evidenti.

In primo luogo, proprio a causa della presenza di più partiti diversi, il governo creato tenderà alla frammentazione, non garantendo la governabilità del paese.

Oltre a ciò, le liste presentate dai partiti nei collegi plurinominali sono liste chiuse, ciò significa che gli elettori non possono scegliere il candidato che preferiscono, ma devono seguire l’ordine scelto dalla segreteria del partito: in questo modo i partiti hanno la già garanzia di avere determinati candidati in Parlamento.

Il sistema, poi, non vieta le pluricandidature, quindi uno stesso candidato può presentarsi sia in un collegio uninominale, sia, fino a un massimo di cinque volte, in più liste proporzionali nei collegi plurinominali.

Questo meccanismo assicura a determinati candidati un seggio in Parlamento: essi, anche se bocciati nel collegio uninominale, possono comunque essere eletti tramite una lista proporzionale, magari in un collegio diverso.

Infine, vi è un paradosso che si pone di fronte ai partiti. Essi sono spinti dal sistema maggioritario, che richiede un solo voto in più rispetto agli altri per ottenere il seggio, ad allearsi e creare grandi coalizioni, in modo da poter più facilmente sconfiggere l’opposizione. Ma, allo stesso tempo, si crea una rivalità tra i partiti all’interno delle coalizioni stesse per ottenere seggi a livello proporzionale.

È opinione diffusa che è anche il sistema elettorale adottato ad aver sviluppato nei cittadini la sensazione di non avere alcuna voce in capitolo nella scelta dei rappresentanti, oltre a provare una sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni stesse.

Secondo i dati dell’Ipsos, l’istituto specializzato in ricerche di mercato e sondaggi politici, l’astensionismo avuto nelle scorse elezioni è stato pari a circa il 30%, cifra che ci si aspetta cresca sempre più, anche a causa del cosiddetto astensionismo forzato, che grava in particolar modo sui fuorisede, ovvero su coloro che vivono in una località diversa da quella di residenza abituale.

Sono, infatti, circa cinque milioni i fuorisede presenti nel nostro paese.

Cinque milioni di lavoratori e studenti ai quali viene negata la possibilità di votare, a meno che non si rechino al seggio di residenza, cosa che per molti non è possibile realizzare.

Mentre gli italiani che si trovano all’estero hanno la possibilità di votare per corrispondenza ormai da anni, nessuna legge è stata ancora fatta per risolvere il problema di questi cittadini, ai quali viene negato un diritto essenziale e un dovere civico sancito dalla Costituzione italiana stessa (Articolo 48).

Il Comitato Voto dove vivo, nato proprio per cercare di risolvere il problema tramite una proposta di legge mirata, sottolinea come gli unici partiti ad aver attualmente inserito nei rispettivi programmi elettorali un impegno concreto in questo senso, siano PD, Azione e Più Europa.

Un passo avanti certo, ma un passo fin troppo piccolo.

È davvero così complesso presentare una legge a tutela dei fuorisede o forse manca la volontà e l’interesse nel farlo?

È evidente che i giovani, che sono maggiormente toccati dall’astensionismo forzato, non sono considerati quali risorsa fondamentale per lo sviluppo del paese.

I sondaggi parlano chiaro: la fascia potenziale di elettori tra i 18 e i 24 anni è pari a 10,3 milioni contro i 22,8 milioni di potenziali elettori che hanno più di 55 anni.

È quest’ultima la fascia di popolazione alla quale i partiti puntano.

È evidente dalle proposte politiche sviluppate, che non guardano al futuro, ma, anzi, gravano sempre più sui giovani.

È evidente da come si decide di allocare le risorse economiche, ma anche da come si decidono di ignorare le battaglie sociali e civili, ritenute secondarie.

Eppure, nonostante possa sembrare tutto già deciso e il nostro voto possa sembrare inutile, non votare non è la soluzione.

Non votare si traduce nel far scegliere agli altri coloro che devono rappresentare anche noi.

Vuol dire rinunciare alla partecipazione, quindi mettere in discussione il principio basilare sul quale la democrazia stessa si regge, minacciando la sua esistenza.