Viaggio tra guerre recenti e narrazioni antiche in Bosnia-Erzegovina

Un viaggio nei Balcani: così una cinquantina di ragazzi e ragazze provenienti dalla provincia di Trento e Bolzano hanno deciso di impiegare una settimana del loro autunno.

di Eleonora Forti, Denise Battaglia, Pearl Bianco, Martina Piscali, Lisa Schivalocchi articolisti dell’Agenzia di Stampa Giovanile

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Un viaggio, ma non uno qualsiasi: accompagnati dalle nostre insostituibili guide, siamo partiti per andare a scoprire la Bosnia-Erzegovina, e abbiamo trovato un magma di vicende storiche, ideologiche, nazionalismi, ferite, comunità, voglia di ripartire. Ce li hanno raccontati i luoghi che abbiamo visitato ma soprattutto le persone che con quei luoghi e le loro storie fanno quotidianamente i conti.

Prima tappa, Mostar. Ci siamo subito addentrati nelle contraddizioni della storia recente. Vlado, il responsabile del centro giovanile di cultura Abrašević, ci racconta di come un gruppo di ragazzi abbia cercato di superare le divisioni che la guerra nei Balcani del 92-96 aveva lasciato. Con la città ancora divisa in una parte croata e una parte bosgnacca (musulmani di Bosnia), i giovani di Mostar decidono di costruire un luogo di incontro e di cultura poco distante dal Bulevar, la linea del fronte ancora ingombra di macerie e priva di illuminazione. Con il loro programma musicale e culturale, osteggiato da entrambe le élite politiche di riferimento, riescono ad attrarre ragazzi da tutte e due le parti della città, che per la prima volta si incontrano, si conoscono, e cominciano a smantellare la retorica nazionalista dei rispettivi gruppi dall’interno delle famiglie.

Questi ragazzi riescono ora a fare ciò che l’architetto Bogdan Bogdanović, su indicazione del Maresciallo Tito (allora Presidente) voleva ottenere con la costruzione della Necropoli di Mostar, un gigantesco monumento dedicato ai popoli Jugoslavi usciti vincitori dalla Seconda Guerra Mondiale. Realizzato sullo stampo delle necropoli greche in modernissimo stile brutalista, il monumento accoglie le lapidi dei partigiani di Tito morti durante la Guerra di Liberazione Popolare (come viene chiamata la Resistenza Jugoslava tra il 1941-45) ed è privo di simboli riconducibili a specifiche fazioni politiche. Il tentativo di costruire una retorica pan-jugoslava da parte delle classi dirigenti si scontra però con la storia. La nostra visita al memoriale della Battaglia della Neretva e al campo di concentramento ustaŝa di Jasenovac in Croazia (ora divenuto monumento grazie al Fiore di Bogdanović) rendono conto della complessità dei rapporti tra i popoli che costituiscono la Jugoslavia. Durante la guerra, ustaŝa croati, ĉetnici serbi e forze partigiane bosniache si sono combattuti e uccisi a vicenda, e anche la fine del conflitto ha portato con sé una lunga scia di rappresaglie che è rimasta nella memoria familiare delle singole comunità.

La narrazione statale ufficiale non concede lo spazio per la rielaborazione del lutto e della storia: dopo la morte di Tito nel 1980, le memorie sommerse e il senso di rivalsa familiare provocheranno un’esplosione di nazionalismi aggravata da un periodo di forte crisi economica, monetaria e sociale. Assecondate e sfruttate da nuovi uomini forti, tra cui spicca in Serbia la figura di Slobodan Miloŝević, le varie istanze disgregatrici degenerano rapidamente in proclamazioni d’indipendenza dalla Jugoslavia e aggressioni militari tra i popoli di diversi territori e tra diverse comunità che condividono gli stessi spazi: è l’inizio delle Guerre in ex-Jugoslavia.

Quando arriviamo a Sarajevo il 28 ottobre, ci rendiamo immediatamente conto di quello di cui si sta parlando: la città, in larga parte ricostruita, porta ancora i segni dei colpi di artiglieria e dei fori dei proiettili sparati dai cecchini durante i quarantaquattro mesi di assedio (dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996) che ha dovuto sopportare. Scopriamo che la popolazione è potuta sopravvivere anche grazie a un tunnel sotterraneo attraverso il quale passavano i soldati impegnati a impedire il totale accerchiamento della città sul monte Igman: di lì passavano infatti le scorte di generi alimentari e di medicine che potevano arrivare alla popolazione. Il generale Jovan Divjak, nato a Belgrado da genitori con ascendenze bosniache, è stato il comandante che ha diretto le forze bosniache nella resistenza di Sarajevo contro l’assedio. Ci racconta delle operazioni di guerra, della resistenza, dei suoi rapporti con le vittime e i loro familiari, della delusione per l’incapacità della comunità internazionale e anche degli errori dei suoi stessi uomini. Oggi non ha abbandonato il suo impegno nel costruire comunità solide e capaci di convivenza ed è a capo dell’associazione Obrazovanje gradi Bih. “L’istruzione costruisce la Bosnia”. Fondata nel 1994 a supporto degli orfani di guerra, adesso fornisce supporto materiale e borse di studio ai ragazzi svantaggiati provenienti da tutta la Bosnia-Erzegovina e li inserisce in progetti di costruzione di comunità attive. Abbiamo potuto conoscere le storie di alcuni bambini che hanno vissuto la guerra grazie al War Childhood Museum, che raccoglie oggetti, disegni, giocattoli a loro appartenuti, e mantiene vivo il ricordo della guerra.

Uno dei luoghi più importanti per la memoria della Bosnia-Erzegovina è costituito dal memoriale di Potoĉari, una distesa di oltre seimila lapidi che occupa intere colline sotto le quali riposano le vittime del genocidio di Srebrenica, quasi tutti uomini bosgnacchi, avvenuto principalmente a luglio del 1995. L’arduo compito di ritrovare e riconoscere quelle salme sparse per le numerose fosse comuni della zona è del Centro di Identificazione di Tuzla, che lavora per la ICMP (International Commission on Missing Persons). Al memoriale di Potoĉari è collegato il museo dedicato al “fallimento della comunità internazionale”, situato proprio nell’edificio che ospitava il Duchbat, il battaglione olandese dell’UNPROFOR (United Nations Protection Force) che non è stato in grado di impedire il genocidio avvenuto a pochi passi dalla loro sede. La spirale del precipitare degli quegli eventi ci avvolge attraverso le fotografie, i documenti ufficiali, le riprese a colori dei colloqui tra il generale aggressore serbo-bosniaco Ratko Mladić e il comandante dell’UNPROFOR Thom Karremans custoditi nel museo.

A Srebrenica veniamo ospitati in famiglie locali, le poche che hanno deciso di continuare a vivere in una città quasi morta, i cui abitanti sono meno di quelle seppellite a Potoĉari. Qui, tra inglese stentato, traduzioni fortuite e gesti, cerchiamo risposte alle tante domande che si sono accavallate dall’inizio del nostro viaggio. Anche a questo scopo incontriamo Valentina Gacić, Muhamed e altri dell’associazione Sara-Srebrenica, che ci raccontano del loro tentativo di riallacciare i legami spezzati tra chi vive Srebrenica, nonostante il negazionismo e i frequenti incontri con persone che si sono macchiate di crimini di guerra e che vivono nei loro stessi palazzi. Valentina riflette sul ruolo della narrazione nazionalista prima e dopo il genocidio e ammette di non essere sicura che lei, di origine serba, avrebbe creduto al racconto dei bosgnacchi se non fosse mai venuta a Srebrenica a parlare con le donne del posto. Muhamed invece ci porta a Osmaĉe, il suo paese d’origine sulle montagne a poca distanza dalla città: a causa della guerra, è stato un luogo fantasma per undici anni, tutti erano morti o fuggiti. Siamo accolti a pranzo da sua madre. Mangiamo in tavolate attorno al fuoco. Sembra assurdo pensare, in quella situazione di convivialità, che i loro parenti più stretti sono stati tutti uccisi.

Una storia altrettanto tragica ci viene raccontata a Tuzla da Zijo Ribić, un ragazzo rom, bosgnacco e musulmano che è miracolosamente sopravvissuto alla strage della sua famiglia e di tutti gli abitanti del villaggio di Skocić. Zijo racconta degli attimi tragici dell’esecuzione dei suoi cari, della sua inaspettata salvezza, della rocambolesca fuga alla ricerca di riparo, dei suoi anni in casa di cura e in orfanotrofio. Ci racconta del processo in cui ha testimoniato contro la squadra paramilitare serba che lo aveva ferito e aveva sterminato tutta la sua famiglia e del fatto che non sono stati tutti condannati. Ma ci racconta anche dei militari Jugoslavi serbi che lo hanno aiutato, rifiutandosi di riconsegnarlo ai suoi aguzzini, degli amici incontrati, del suo lavoro di cuoco, del suo incredibile matrimonio tradizionale rom e di alcuni divertenti episodi della sua infanzia.

Tante delle persone che abbiamo incontrato durante il viaggio hanno subito delle perdite a causa della guerra: Zijo, Muhamed, la guida del museo di Potoĉari. Eppure, loro e tanti altri si occupano di preservare e raccontare la storia recente per combattere il negazionismo e smarcarsi dalle narrazioni nazionalistiche delle varie fazioni in cui tutt’ora molti abitanti della Bosnia-Erzegovina si riconoscono. Il nostro viaggio, organizzato da Arci del Trentino, Arciragazzi di Bolzano, con il supporto di Deina, Teatro Zappa e coop @altrimondi, non è stato neutro: è servito a portare sostegno economico alle persone impegnate nel progetto Adopt Srebrenica ed ha significato che la comunità internazionale comincia a riconoscere attivamente il genocidio. In un luogo in cui la retorica prevalente è ancora quella del negazionismo, una delegazione italiana di oltre cinquanta persone serve anche da garanzia per chi combatte contro questa retorica.

Volevamo scoprire la Bosnia-Erzegovina, ma è stata la Bosnia-Erzegovina a scoprire noi, i nostri nervi, la nostra ignoranza, la nostra noncuranza. Torniamo a casa consapevoli che i fantasmi del nazionalismo violento non sono morti vent’anni fa, né in Europa né altrove, e che siamo circondati da guerre alle quali facciamo ancora fatica ad opporci. Lo testimoniano i severissimi controlli alla frontiera bosniaco-croata e i ripetuti tentativi di alcuni gruppi di migranti di salire sotto il nostro pullman con la speranza di arrivare in Europa. Sconcertati ma risoluti, abbiamo portato il racconto del nostro viaggio nel circolo Arci Arsenale e speriamo di poterlo ripresentare altrove, per incuriosire ed invitare alla riflessione il nostro pubblico e convincere altre ragazze e altri ragazzi a partecipare a iniziative simili.

Il reportage fotografico
In copertina: I ragazzi di Arci

In ordine di apparizione:
1. La necropoli di Bogdan Bogdanoviĉ fuori Mostar
2-3. I ragazzi di Arci mentre visitano la Necropoli
4. La scacchiera politica della Guerra Fredda
5. Telescrivente dal bunker di Tito
6. Foto degli accordi per la fine della Guerra
7. Foto di Miloševiĉ cancellata dai visitatori
8. Ritratti di Tito al Museo della Resistenza a Sarajevo
9. Tram di Sarajevo
10. Altalena del moto perpetuo al War Childhood Museum
11. Il generale Divjak
12. Le lapidi del Memoriale di Potoari
13-16. Il Museo dedicato al fallimento della comunità internazionale
17-18. Osmaĉe
19. Muhamed a Osmaĉe
20. La madre di Muhamed che ha ospitato i ragazzi in visita
21. Muhamed con i ragazzi di Arci
22. La casa della madre di Muhamed
23. Una responsabile del Centro di Identificazione di Tuzla
24. Il memoriale di Jasenovac
25. Fiore di Bogdan Bogdanoviĉ