Tecnologia e finanza: le chiavi per il successo della COP21

Vicepresidente del terzo gruppo di lavoro dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change). Non serve forse altro per presentare Carlo Carraro, economista e accademico italiano che abbiamo incontrato alla Conferenza ONU sul Clima (COP21) e al quale abbiamo chiesto alcune impressioni su questi ultimi giorni di negoziati.
Come stanno andando i negoziati, che clima si respira?
Il clima è positivo e collaborativo. Per la prima volta la forte opposizione che c’è sempre stata tra paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo si è molto attenuata. C’è la consapevolezza in questi ultimi che il cambiamento climatico è un problema che ha a che fare anche con lo sviluppo economico e non solo con l’ambiente. La chiave di lettura è proprio questa: il cambiamento climatico impatta sulla crescita economica di questi paesi ma anche sulla la povertà, sulla disponibilità di risorse primarie come l’acqua. Da questa consapevolezza segue il fatto che i paesi in via di sviluppo devono comunque fare qualcosa. Questo qualcosa fa parte di un processo più grande in cui lo sforzo maggiore viene fatto dai paesi sviluppati. Ma anche i paesi in via di sviluppo devono contribuire.
Non tanto per la responsabilità che non hanno, perché le emissioni che abbiano in atmosfera sono responsabilità dei paesi sviluppati. Ma perché il processo di sviluppo che stanno avviando richiederà loro una crescita diversa. Loro non possono emettere tanto quanto abbiamo emesso noi e questo semplicemente perché è il Pianeta stesso che non lo permette.Per perseguire un percorso diverso c’è bisogno di un accordo globale in cui paesi sviluppati facciano uno sforzo principale ma si impegnino anche a trasferire quelle tecnologie e quelle risorse finanziarie di cui hanno bisogno per crescere in modo diverso.
E questo è lo snodo della COP21 che non è ancora risolto. Sulla strada da percorrere e sugli impegni da prendere c’è abbastanza consenso. Su chi metterà le risorse e su quante saranno queste risorse si sta ancora negoziando.Quindi parliamo di tecnologia, di risorse finanziarie.
Concretamente però non c’è ancora un consenso su come e quando farlo…
Non è proprio così. I risultati presentati dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in questi giorni fanno vedere che dei 100 miliardi del Green Climate Fund che dovrebbero essere stanziati annualmente per sostenere le iniziative di mitigazione e adattamento dei paesi in via di sviluppo ne abbiamo stanziati circa 60. Quindi 60 miliardi ci sono già. Un investimento è stato fatto.
Non è sufficiente: sappiamo che dobbiamo arrivare a 100, sappiamo che dobbiamo investire un po’ più in adattamento. Ora viene investito il 77%, in mitigazione, cioè in riduzione delle emissioni. Dobbiamo investire di più in adattamento, cioè nel difendere questi paesi dagli impatti dei cambiamenti climatici.La questione è che noi abbiamo poco la percezione di quanto problematico sia il cambiamento climatico nei paesi più vulnerabili. In Europa, tutto sommato, ci accorgiamo di qualche evento estremo in più, di una siccità magari più intensa, ma non abbiamo la più pallida idea degli impatti enormi che si stanno realizzando in questi paesi. Servirà quindi un po’ più di supporto anche per far fronte alle emergenze di breve periodo, e non solo per le strategie di lungo termine. Però non siamo distanti da un accordo, essere arrivati già a 60 miliardi di dollari è gran risultato.
Quindi abbiamo degli elementi di pessimismo ma anche di ottimismo.
Sì, io partirei da quelli di ottimismo. Abbiamo per la prima volta un accordo che coinvolge 182 paesi e ciò non era mai successo. Questo accordo copre il 96% delle emissioni mondiali, quando aKyoto arrivavamo al 14%. Quindi non c’è paragone. Si supera la divisione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Ma soprattutto con gli impegni già presi e con quelli già perseguiti arriviamo per la prima volta a fermare la crescita delle emissioni. Negli ultimi 40 anni abbiamo visto una crescita di circa l’1,2% all’anno. Negli ultimi 10 anni è raddoppiata. Quindi più siamo consapevoli, più negoziamo, più discutiamo di emissioni e più le emissioni crescono. È piuttosto paradossale.
A Parigi, per la prima volta, le emissioni si fermano, non scendono ma si fermano. E con l’Accordo di Parigi al 2030 avremo una stabilizzazione. Dopo il 2030 dovranno scendere, però intanto abbiamo fatto un bel passo avanti e questo credo che sia la notizia più positiva.Si stima che gli impegni di riduzione delle emissioni messi sul tavolo prima di Parigi (i cosidetti Intended Nationally Determined Contributions – INDCs) non saranno in grado di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2.7°C entro il 2030.
In questi giorni, però, si sente molto parlare della necessità di mantenere l’aumento della stessa entro gli 1.5 °C entro il 2100. Che relazione c’è tra questi numeri?
Chi ha dato l’informazione dei 2.7°C ha anche spiegato bene che tale obiettivo si raggiunge se le emissioni rimangono al livello del 2030 fino al 2100. Ma chi ha detto che debbano rimanere a questo livello? Anzi, l’IPCC da anni spiega che debbano raggiungere un picco al 2030 (ed è quello che si otterrà a Parigi), dovendo poi iniziare a scendere. Se dopo il 2030 le emissioni scenderanno azzerandosi intorno al 2080-2090, allora sarà possibile arrivare ai 2°C.
Ma questo picco non è un grande rischio?
Il rischio c’è sicuramente. Il rischio c’è da quando abbiamo superato un livello di concentrazioni in atmosfera maggiore di quello che abbiamo mai visto nella storia dell’umanità. Però è un rischio che rimane limitato ad oggi ad alcune aree del Pianeta. Non è ancora un problema di tutte le nostre società. È ovvio che sarebbe stato preferibile avere il picco a Copenhagen nel 2009: non è andata. Non è andata totalmente neanche a Parigi, perché riusciremo a stabilizzare e non a far scendere le emissioni al 2030. Ed è più tardi di quanto avremmo voluto. È comunque un grande passo in avanti, per cui non butterei via il risultato.
 Non è sufficiente e dal 2030 in poi dovremo far scendere le emissioni un po’ più rapidamente. La speranza è che con le tecnologie che saremo in grado di sviluppare in questi 15 anni potremo farlo a partire dal 2030.
Il ruolo dello sviluppo tecnologico è dunque centrale per ridurre le emissioni a partire dal 2030?
Soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Nei paesi sviluppati la riduzione sta già avvenendo: l’Unione Europea si è impegnata a ridurre del 40% al 2030, gli Stati Uniti al 38%. È a livello aggregato che non riduciamo ma stabilizziamo. Questo perché nei paesi in via di sviluppo non abbiamo ancora tecnologie per farlo a basso costo. Quello che tutti pensano è che tra 15 anni riusciremo ad avere un tale trasferimento tecnologico. Ma c’è un prerequisito: forti investimenti in ricerca, innovazione e trasferimento di tecnologia. Una cosa che richiedono tutti e che speriamo da Parigi possa realizzarsi.