La voce dei giovani dall’Iran
“Non vogliamo, non vogliamo la Repubblica islamica”: nelle strade di Teheran e dell’Iran tutto, questo è uno dei cori che, ormai da giorni, la folla inarrestabile continua ad acclamare. La voce è l’ultimo strumento rimasto agli iraniani per contrapporsi al regime conservatore presente nel paese.
Di Gloria Malerba
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Ogni giorno più ampie, le proteste imperversanti in Iran, sono iniziate lo scorso settembre nella parte Nord-Ovest del paese, il Kurdistan iraniano, a seguito dell’uccisione di Masha Amini. La ragazza curda, di soli 22 anni, è morta in carcere il 15 settembre dopo l’arresto da parte della polizia religiosa, un corpo militare costituito nel 2005 per volontà della parte più conservatrice del regime, perché accusata di non aver indossato il velo in maniera corretta. Da quel giorno, le contestazioni sono via via aumentate, toccando la capitale e tutte le principali città del paese.
I protagonisti delle rivolte sono sicuramente i giovani. Celebre ormai è il gesto delle studentesse iraniane: togliere e bruciare il velo islamico, come gesto di opposizione al regime e alla figura chiave in tale assetto, la Guida suprema, Ali Khamenei. Partite dalla sfera femminile, le contestazioni si sono allargate, poi, ai giovani tutti.
La paura di poter essere arrestati in qualsiasi momento, come era successo a Masha Amini, ha pervaso il paese e ha spinto ad una mobilitazione crescente.
Allo sviluppo delle proteste, però, è seguita una repressione altrettanto forte. Migliaia sono le persone arrestate in questi mesi, ma pochi sono i sopravvissuti disposti a raccontare quello che hanno subito, anche per paura di ulteriori ripercussioni. Grazie alle poche testimonianze e ai report di alcune Ong, tre le quali l’Iran Human Rights Monitor, sappiamo che le terribili violenze impresse ai detenuti sono sia fisiche che psicologiche: botte, stupri, prigionieri obbligati a violentarsi a vicenda mentre telecamere sul soffitto riprendono la scena, ma anche istigazioni di pensieri sul togliersi la vita e somministrazioni di droghe e stupefacenti.
Allo stesso modo, il numero delle condanne a morte e delle esecuzioni diventa ogni giorno maggiore, tanto che è difficile avere numeri certi. Ad inizio dicembre la stampa internazionale ipotizzava che il numero delle vittime si aggirasse introno alle centinaia, ma il bilancio pare essere in realtà maggiore: il ministero dell’interno iraniano stesso ha stabilito che le vittime dovrebbero essere almeno 1500. Stima probabilmente al ribasso, viste le continue esecuzioni perpetrate.
I manifestanti sono accusati di muhariba, “offesa a Dio” e i Basiji, gli appartenenti alla forza paramilitare fondata dalla Guida suprema Khamenei, sono considerati i figli di Dio, di conseguenza l’uccisione di un Basij comporta, senza esclusioni, la pena di morte. Sono i Basiji e, più in generale, l’Esercito dei guardiani della Rivoluzione a cui essi sono subordinati, coloro i quali potrebbero potenzialmente prendere il controllo del paese in caso di morte del leader Khamenei, malato di tumore. È l’Esercito, in effetti, ad avere già grande peso nel paese, non solo a livello interno, ma anche esterno.
Di fatto, senza un’organizzazione efficace della rivolta e senza un disegno su un possibile assetto futuro dello Stato, i guardiani della Rivoluzione potranno facilmente accentrare il potere nelle proprie mani e imporre un nuovo regime.
Di fronte a questa situazione è complesso ottenere informazioni dettagliate e verificate su quanto accade, sia per chi si trova all’interno che per chi si trova all’esterno dei confini iraniani. L’accesso ad internet è limitato e completamente impedito ogni giorno dalle 16 in poi. In pratica, il regime sta cercando in ogni modo di bloccare l’attività dei media dissidenti e dei vari attivisti.
Pegah Moshir Pour è una di loro. Iraniana, trasferitasi in Italia all’età di nove anni, l’attivista si sente fortemente vicina al popolo iraniano, per questo cerca di diffondere quanto più possibile notizie su ciò che sta avvenendo nel paese. In una delle interviste rilasciate negli ultimi giorni, Pegah racconta, tra le altre cose, di come la Guida suprema stia cercando in ogni modo di non far uscire le persone da casa, per evitare che le rivolte possano aumentare. A questo fine, sono state rilasciate nell’aria delle sostanze tossiche, anche in alcune scuole e università, a causa delle quali molte persone sono finite in ospedale. A ciò si è unita la diffusione di una retorica di paura sull’arrivo della nuova sotto variante del Covid, Kraken.
Ancora, è stato sviluppato un sito web in cui i manifestanti possono fare varie richieste, ma per accedervi bisogna rilasciare tutte le proprie credenziali: si cerca di rintracciare e catalogare i dissidenti in ogni modo. Inoltre, Pegah sottolinea le difficoltà incontrate da chi, come lei, cerca di denunciare le azioni del regime e si concentra su come i media occidentali, a volte, tendano a sottostimare o tralasciare importanti vicende.
Ad esempio, per giorni i giornali occidentali hanno parlato dell’annuncio dell’abolizione della polizia morale. Questo corpo, in realtà, non ha particolari poteri e non è il vero responsabile delle repressioni e delle uccisioni, perpetrate principalmente dai Basiji. L’unico obiettivo del regime, tramite la comunicazione, era quello di distogliere l’attenzione occidentale dal cosiddetto sciopero dei tre giorni, che, in effetti, non ha avuto l’impatto inizialmente previsto dai manifestanti.
L’informazione è la chiave per non far fallire la rivoluzione in atto.
Pegah ci tiene a sottolineare come sia fondamentale continuare a raccontare ciò che succede, nonostante i continui blocchi e shadowban a cui lei e tutti gli attivisti sono sottoposti.
Il suo appello alla comunità internazionale è quello di non dimenticare l’Iran e tutti quei possibili paesi che in futuro potrebbero subire la stessa sorte.
Nel frattempo, quali sono le azioni decise dalla comunità internazionale?
Amnesty International ha chiesto al Consiglio dell’ONU sui diritti umani di costituire una commissione d’indagine indipendente. Anche se, secondo il diritto internazionale, quest’ultima per poter intervenire avrebbe comunque bisogno dell’autorizzazione da parte del governo iraniano. Inoltre, l’organizzazione ha esortato l’Occidente a spingere per far annullare le condanne a morte previste e astenersi dal pronunciarne delle altre, per rilasciare i manifestanti imprigionati e per garantire osservatori indipendenti nei tribunali iraniani, in modo da poter assistere ai processi relativi alle proteste.
Sarà abbastanza?