Contraddizioni al profumo di çay

di Rachele Baccichet, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

Atterrata. La sera grigia, circondata da nuvole gravide di pioggia e abbracciata da un vento gelido. Così iniziava il mio viaggio ad Istanbul, in quella che è detta “la porta per l’Oriente”. Un volo diretto da Bologna, poi un autobus che squarcia una sera di fine novembre color antracite e raggiungo la città sul Bosforo.

Come scendo dall’autobus vengo catapultata nella vivacità del quartiere di Taksim tra insegne luminose, persone che si spalmano nelle vie principali tra i classici palazzi in stile liberty delle grandi marche e caratteristici shisha bar. L’odore di baklava e di doner si mescolano insieme a quello di una città che non è ancora pronta a dormire.

Nella prima notte del mio viaggio vengo trasportata a vivere quelli che sono gli angoli più moderni e giovani della vecchia Costantinopoli, tra Beyoglu e Cihangir, dove ho la sensazione, nonostante i chilometri, di non essermi allontanata poi così tanto dall’Europa occidentale. Ma forse mi sbaglio.

La prima conoscenza che faccio è in un pub nascosto dai ritmi caotici del centro: un gruppo di ragazzi turchi, alcuni studenti universitari, altri no, fra loro anche un curdo. Si ride e si parla, dove possibile, perchè qui in pochissimi masticano l’inglese. Ci si capisce a gesti, a sguardi…o con il traduttore online. Così vengo a scoprire dell’insolita passione che i turchi hanno per Il Padrino e subito dopo parte un giro di chitarra a cui tutti si accodano cantando la versione in turco di “Bella Ciao”. Non una parodia, ma un canto sentito, intenso, che in quel momento ho pensato potesse arrivare lontano fino ad accarezzare Bologna. Comincio a scoprire la città per ciò che è davvero, un mix di contraddizioni.

Istanbul è una città nata dall’unione di 27 quartieri, uno diverso dall’altro, come ogni suo angolo appare. Come anche la sua gente. Ogni zona della città presenta delle particolarità che la differenziano e questo crea un senso quasi di distacco, di singolarità, che rimarca quello che è stato il suo processo storico di formazione sotto il disegno attuato da Kemal Ataturk, “Padre dei Turchi”.

Qui Ataturk lo si trova ovunque, indipendentemente dalla zona in cui ci si trova: dai poster nei negozi, i dipinti che lo ritraggono appesi alle pareti di locande e ristoranti, gli adesivi sulle macchine, le bandiere appese alle terrazze delle case e le gigantografie ai palazzoni. La figura di Kemal Ataturk, il Garibaldi e il Cavour dello Stato turco, è oggetto di profonda ammirazione, per non dire venerazione, dalla maggior parte dei cittadini. Al contrario mi ha stupito non vedere foto di Erdogan, segno che tra il popolo turco, nonostante il grande sostegno a lui dato, non è ancora arrivato ad un livello tale di successo da potersi accostare al grande statista e fondatore della repubblica.

Nel distretto di Fatih si trova il cuore ancora pulsante della vecchia Istanbul, racchiuso tra le antiche mura e le acque del Bosforo e del Corno d’Oro. Da qui comincio davvero a intravedere i riflessi contraddittori che questa città porta con sé. Moschee sontuose, giardini curati con minuziosità accostati a tetti in lamiera, mura crepate e infissi consumati dal tempo. Sfarzo e povertà, balconi ricchi di piante rigogliose, altri di terra e polvere. Qui, passando per le varie vie, si incontra, oltre a bambini che giocano per strada e caratteristici carretti colmi di simit, quella parte di popolazione islamica più tradizionalista, uomini dai vestiti tipici turchi, ma specialmente donne di qualsiasi età con indosso il chador, ancora più spesso il niqab, un velo nero che copre tutto il corpo lasciando scoperti solo quei malinconici e profondi occhi. Chissà quali storie si nascondono sotto quel mantello, mi chiedo.

Il contrasto tra le vivaci insegne dei negozi, le urla spensierate dei bambini e tutto quel nero che quelle donne si portano appresso da troppo tempo rimane impresso in maniera nitida nella mia mente di ragazza occidentale, ancora troppo lontana da questa cultura per non venirne toccata. Ad Istanbul però le donne non sono tutte osservanti l’antica tradizione islamica, questa è una città talmente mutevole, caleidoscopica che in un unico quartiere convivono svariate sfumature di società. Infatti rimanendo entro lo stesso quartiere, qualche via più in là delle donne in niqab, passeggiano tenendosi per mano senza paura altre ragazze esteticamente più vicine all’immagine occidentale e altre sempre con il velo, ma questa volta si tratta di un colorato hijab, che indossano con un sorriso spensierato e disinvolto.

Dopo quei volti di ragazza, i profumi di bancarelle colme di sature e speziatissime polveri, cafè rigorosamente riservati agli uomini, dove questi si ritrovano a giocare con a tavla sorseggiando çay nella calma del pomeriggio, mi imbatto in un’amara e lacerante realtà che dipinge un altro tassello di questa città: quella dei bambini messi sulla strada dai genitori per racimolare qualche lira vendendo fazzoletti. Piccoli e innocenti visi che si aggirano per i marciapiedi, dalla mattina alla sera, nel freddo secco di novembre e nelle loro piccole e innocenti mani contano il bottino del giorno. “Bambini di strada” vengono chiamati, la scuola non la vedono e la loro esistenza spesso è condotta fuori da una famiglia e da qualsiasi struttura adatta a prendersene cura. Vengo a scoprire poi che quello dei piccoli figli della strada in Turchia è un fenomeno largamente diffuso, sono più di milleseicento, il più concentrati tra Istanbul e Diyarbakir.

A far loro compagnia una quantità di cani e gatti randagi finora mai vista; in Turchia se ne contano circa centocinquantamila ma gli abitanti sembrano non notarli, o meglio, spesso li considerano come veri e propri compagni tant’è che quasi ogni casa ha fuori dal proprio ingresso una ciotola con dell’acqua e qualche avanzo di cibo e contrariamente a quanto si possa pensare il più di questi animali sono curati e nutriti. La maggior parte dei cani inoltre possiede di solito una placchetta sull’orecchio a testimoniare il fatto che sono stati vaccinati dal comune, ma è inevitabile che a vederli vagare tristemente e silenziosamente fra le vie della città l’occhio non familiare se ne stupisce con mestizia.

Ho parlato di bambini e animali di strada, ma Istanbul non solo questo. Proprio perché città di forti contrasti accanto ai lati più amari ce ne sono altrettanti di dolci, come l’ospitalità e la gentilezza delle persone del luogo incontrate. Più volte mi sono trovata con lo sguardo confuso e la cartina in mano senza sapere da che parte andare e senza chiedere nulla un signore mi si avvicinava chiedendomi dove dovevo andare per poi abbandonare ciò che stava facendo ed accompagnarmi al luogo, per ricompensa solo un sorriso pieno di gratitudine. Nulla di più che una grande gentilezza umana. A volte però penso se al posto di una giovane ragazza occidentale fossi stata un ragazzo curdo nella stessa situazione, si sarebbe presentata comunque quella gentilezza gratuita?

Nel mio viaggio ho vissuto ed osservato le mutevoli realtà che vivono ora tra le mura della vecchia Bisanzio e le acque calme del Bosforo. Un città che colpisce, stupisce e s’imprime nella memoria già dal primo battito di ciglia, si mostra nella sua vastità appena girata la curva, una visione a cui chi è abituato alle sole capitali europee non è preparato. Istanbul è una città che negli ultimi anni ha subito profonde trasformazioni, specialmente sotto il governo di Erdogan che ha sempre più stretto accordi con i Paesi asiatici volti a promuovere e finanziare innumerevoli opere infrastrutturali e commerciali (anche per far passare in secondo piano le sue posizioni non propriamente democratiche e in allontanamento dall’Unione Europea) e che, nonostante la spinta alla modernizzazione, ha notevolmente rafforzato il ruolo dell’islamismo.

Una città che vive nel contrasto tra tradizione e modernità, protesa verso il futuro, ma che conserva con orgoglio le sue antichissime radici. Città-cosmo dalle molteplici facce e testimone delle stratificazioni tra le diverse civiltà a cui deve l’espansione e lo sviluppo, una città che rappresenta il cuore pulsante di un Paese in perenne movimento. Proprio per questa impressione di contraddittorietà che mai mi ha abbandonato in questi giorni di viaggio rimango con una domanda irrisolta: in questo presente storico Istanbul è ancora la “porta per l’Oriente” o bisognerebbe ora dirla “porta per l’Europa”? Una domanda sospesa, come sospesa fra minareti e grattacieli rimane per me questa megalopoli che ho cercato di catturare in qualche frammento fotografico.