Il volto digitale della violenza di genere

Corpi femminili come merce di scambio in una società virtuale patriarcale. La violenza di genere si estende anche al mondo online, urge una battaglia culturale.

Di Margherita Mescolotto, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

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L’uomo alpha e il suo gioco di potere per conquistare il titolo di capobranco. La donna, ridotta a essere oggetto e merce sessuale.
Modelli di comportamento e non eventi isolati, come sono spesso considerati e quindi minimizzati, sintomo di una società patriarcale, che si manifestano sempre con più frequenza anche online. 

Si tratta della violenza di genere digitale, fenomeno in espansione, continuum degli abusi offline sulle donne. Nonostante non sia possibile quantificare in maniera adeguata la sua estensione e il suo impatto, Amnesty International ha dichiarato che 1 donna italiana su 5 ha subito molestie e minacce online. Il genere femminile è colpito in maniera sproporzionata rispetto agli uomini: il rischio di essere molestate è 27 volte maggiore. Il grande ma spaventoso successo della misoginia virtuale è sicuramente dovuto al crescente sviluppo di internet e dei social media, ma in gran parte attribuibile all’attrattiva di ciò che il web offre, ovvero l’anonimato. Dietro lo schermo del proprio smartphone o del proprio pc ci si sente più forti, deresponsabilizzati, autorizzati a esprimere disprezzo, prepotenza e brutalità.

La virtualità, che potrebbe far apparire questo tipo di violenza più innocua, rappresenta invece una pericolosa minaccia: non esiste confine spazio-temporale, i contenuti si diffondono in maniera virale e in tempi rapidissimi e circolano all’infinito


È così che quella foto inviata al proprio partner, simbolo di intimità e atto di fiducia, può rovinare una vita. Ne è testimonianza la storia di Serena, come racconta Simone Fontana nel suo articolo di Wired Dentro il più grande network italiano di revenge porn, su Telegram” . La ragazza ventunenne, studente fuorisede, è una delle migliaia di vittime della pornovendetta sui gruppi Telegram, che contano più di 2 milioni di utenti e in cui viene condiviso materiale pornografico non consensuale, spesso anche minorile, con nome, cognome, indirizzo, numero di cellulare annessi.

Le parole di Serena: “Qualcuno ha preso delle foto dal mio profilo Instagram e le ha pubblicate sul gruppo. Non mi vergogno di quelle immagini, è tutta roba pubblica, ma è stato un po’ come gettare un pezzo di carne in una gabbia di cani affamati…” “Non ho fatto troppo caso ai primi messaggi arrivati, non è raro che qualcuno ci provi sui social. Poi però sono passati agli insulti, di quelli che di solito vengono riservati alle donne. Uno di loro mi ha detto: “fai la troia e poi non ci stai? Sono felice che ti abbiano messa su Telegram”.  

La cyberviolenza è quindi l’ennesima manifestazione dell’oggettivizzazione del corpo femminile, considerato come moneta di scambio e strumento di piacere e intrattenimento.
A livello europeo non esiste una legislazione comune per definire e regolare questo fenomeno e preoccupante è l’atteggiamento frequente di minimizzazione del problema, come se l’accaduto, perché online, non provocasse un danno sociale e psicologico reale. Alcuni stati, come Regno Unito, Francia e Germania hanno adottato una normativa che sembra rappresentare un grande passo avanti verso la giustizia. Anche in Italia è stato introdotto il reato di “revenge porn”: diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti, punito con fino a 6 anni di reclusione e 15 mila euro di multa.

Nonostante questa legge si possa considerare un buon traguardo, la regolamentazione è ancora piuttosto limitata. Innanzitutto, come suggerisce il filosofo Lorenzo Gasparrini su il Sole 24 Ore, è necessario riflettere sulla correttezza etimologica del termine “vendetta”. Utilizzando questa parola si sta infatti in parte incriminando la vittima della violenza e si sta legittimando il carnefice a pareggiare i conti. Dopo tutto la colpa sta nel comportamento della ragazza che ha chiuso una relazione, che ha pubblicato delle foto sul proprio profilo social, che ha inviato un video perché si fidava…
In secondo luogo esistono purtroppo molte altre forme di violenza virtuale, che dovrebbero essere egualmente punite. Alcuni esempi sono il cyberstalking, la versione online del reato di stalking, che ha l’obiettivo di perseguitare e molestare l’altro attraverso continui messaggi e commenti offensivi, il doxing, cioè ricercare e pubblicare informazioni personali e private per causare panico e angoscia e il bullismo a sfondo sessuale che mira a sminuire e umiliare l’altro. 

Ma quali sono le radici della misoginia virtuale? Società patriarcale, luogo di violenza e non di piacere, che rende profondamenti patetici. Possesso, Potere e Punizione come strumento di dolore e ingiustizia. È attraverso le 3 P che, Federico Fumagalli, giovane attivista e progettista, laureato in Design della Comunicazione al PoliMi, descrive il meccanismo alla base del così denominato “revenge porn”. Condividere immagini a sfondo sessuale non consensuali equivale a un esercizio di potere per affermare la propria virilità ed è legato al desiderio di punire una donna e al fascino di possedere qualcuno che, in virtù del suo appartenerci, è vulnerabile. Una sorta di cultura dello stupro, che ha origine dall’idea di mascolinità ancorata a concetti antichi, per cui gli uomini sono “