Scienza e cambiamento climatico, Lombroso: “Coinvolgiamo la popolazione”
Divulgazione e comunicazione della scienza sono fondamentali per la transizione ecologica: la nostra intervista al meteorologo Luca Lombroso.
di Irene Trombini, articolista di Agenzia di Stampa Giovanile
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Alla COP26 abbiamo incontrato il meteorologo Luca Lombroso. In una breve intervista abbiamo avuto l’occasione di parlare di comunicazione della scienza, di formazione e di come implementare sul territorio ed educare la popolazione ai sistemi di allerta meteo.
Lei non si definisce solo meteorologo ma anche ambientalista e divulgatore. Quale è il suo percorso di attivismo contro il cambiamento climatico, ad esempio attraverso la comunicazione?
Oltre al lavoro di responsabile tecnico per l’Osservatorio geofisico di Modena e Reggio Emilia, che è una delle poche realtà accademiche italiane che dà la possibilità di accreditarsi per la COP26, ormai da anni mi impegno nel mondo della comunicazione sia sul web, sulla pagina meteored, sia scrivendo libri.
Anche la COP26 per me è un’occasione non solo per cogliere spunti, ma anche per comunicare e diffondere la scienza che sta dietro al negoziato.
Paulo Lima, il fondatore della nostra associazione ci dice sempre che “comunicare è un atto politico”. Cosa pensa delle prese di posizione molto nette di alcuni ricercatori di scientists for rebellion, ad esempio dell’azione che ha portato all’arresto di 21 ricercatori?
Certo, esporsi e parlare di clima è un atto politico perché il clima di oggi e del futuro sono soprattutto una questione politica. E’ per questo che i negoziati come la COP sono importanti, ma non bastano. Quando è stato firmato il Protocollo di Kyoto la concentrazione di CO2 in atmosfera era di 350 ppm, oggi siamo a 414: i gesti di protesta di questi scienziati sono diventati necessari.
Secondo lei che ruolo ha avuto finora il mondo scientifico in questo?
Il cambiamento climatico è un fenomeno complesso e gli attori in gioco sono tanti. Per questo motivo è difficile attribuire chiaramente le responsabilità di una transizione che procede a rilento. Per quanto riguarda la scienza, sicuramente si può dire che nonostante la conoscenza in materia di cambiamento climatico parlasse chiaro, ci sono stati dei ritardi e delle difficoltà nel comunicare la portata del problema e l’urgenza della risposta. E’ solo da pochi anni che la comunità scientifica si è interrogata sulle modalità con cui dialoga e comunica con il grande pubblico. Andando nella direzione di una distinzione più chiara tra i ruoli dello scienziato, del divulgatore e del comunicatore, il Tavolo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), ad esempio, ha affidato la comunicazione a un team di esperti. Rivoluzionando la propria presenza sui social media, ha potuto cogliere i primi frutti: la pubblicazione del sesto rapporto in agosto ha avuto una risonanza mediatica mai vista prima.
Che cosa consiglia, quindi, per fare della buona comunicazione della scienza?
Come detto, innanzitutto distinguere i ruoli. E poi sicuramente non accontentarsi di fare formazione nelle scuole, ma includere tutta la popolazione nei programmi di educazione al cambiamento climatico, che del resto possono anche diventare delle occasioni di partecipazione delle comunità ai piani di adattamento. Nella mia esperienza, mi occupo di fare in modo che i sistemi di allerta che si basano sulle previsioni meteo non si fermino al dato, ma si traducano in una reazione interattiva con la popolazione. Nel mio corso “Attenti al meteo”, ho ideato un nuovo format partecipativo in cui parto da una descrizione dei rischi per poi passare subito a illustrare come reagiamo davanti a situazioni di allerta meteo e come dovremmo invece reagire. Bastano anche abitudini semplici, come quella di portare sempre con sé un fischietto. E’ un gesto quasi banale ma che dovremmo imparare a rendere parte delle nostre vite, soprattutto visto che con le emissioni, la frequenza e l’intensità di molti eventi meteo estremi sono destinate ad aumentare.
A che punto siamo in Italia?
Per quanto riguarda la formazione c’è ancora molto da fare, ma penso che l’impegno del Ministero in tema di partecipazione giovanile sia lodevole. I ragazzi, che negli anni a venire saranno la generazione che più si dovrà occupare di cambiamento climatico, non devono essere visti come parte del problema, ma come dei soggetti attivi con cui la nostra generazione deve dialogare e impegnarsi per trovare la soluzione.