Ogni secondo qualcuno migra per i cambiamenti climatici
Riflettendoci un attimo, è facile concludere che il clima sia all’origine della vita sulla terra. Ricordo che da bambino ho imparato come ogni ecosistema sia intimamente collegato alle persone, e quanto questa relazione sia delicata. Anche solo un piccolo cambiamento all’interno del ciclo naturale può distruggere un intero ecosistema e, di conseguenza, danneggiare le persone che lo abitano. Ad esempio, l’aumento della temperatura dell’acqua spinge i pesci a cercare sorgenti più fredde, costringendo magari un intero villaggio il cui sostentamento dipende dalla pesca, a migrare. Nonostante i movimenti di massa non siano un fenomeno recente nella storia dell’uomo, le migrazioni di intere comunità rappresentano, invece, una profonda novità. Lo spostamento di migliaia di individui comporta infatti non solo rischi per la comunità migrante, ma anche per quella ospitante (problemi relativi a lavoro, sostentamento, alloggi, ospedali e così via). Non di meno, questo fenomeno implica considerazioni di natura politica, in quanto non tutti i paesi sono disposti ad accogliere migranti. Questo è, in breve, il problema delle migrazioni climatiche e dello sfollamento. Un migrante è una persona che cambia paese, in maniera permanente o solo per un certo lasso di tempo. Uno sfollato, o profugo interno, è colui che si sposta all’interno del proprio territorio nazionale; un rifugiato è, invece, un individuo che fugge da una situazione di pericolo (definizione di rifugiato e migrante dell’UNHCR //www.unhcr.org/news/latest/2016/7/55df0e556/unhcr-viewpoint-refugee-migrant-right.html; definizione di sfollato //www.unhcr.org/internally-displaced-people.html).Il principale problema quando si parla di migranti, rifugiati o sfollati climatici, è la mancanza di un quadro legale che possa proteggerli. La Convenzione di Ginevra (1951) non contiene, infatti, una definizione di “rifugiato climatico”, categoria che non esiste da un punto di vista legale. Ciononostante, secondo Marine Franck (UNHCR), “una persona al secondo è costretta a migrare per motivi legati al clima; ad esempio, molti sono costretti a fuggire a causa di disastri naturali, e più in generale a causa del cambiamento climatico”. Questo perché le risorse naturali di cui disponevano un tempo stanno man mano scomparendo. Altri, sono costretti a fuggire perché, ad esempio, vivevano in un’isola che ora sta sprofondando. Non possono far altro che fuggire, e non possono godere d’un insieme di diritti che li protegga. Questo è il vero problema. “È necessario colmare le lacune legali che riguardano le persone maggiormente colpite dagli effetti del cambiamento climatico”, dice Marine. Bisogna affrontare la questione dello sfollamento in anticipo, sottoscrivere accordi tra paesi che si impegnino in progetti di accoglienza prima ancora che un qualunque “disastro” accada. In questo senso, l’Accordo di Parigi ha dato vita ad una taskforce incaricata di fronteggiare il problema degli sfollati. Tuttavia, come sottolinea Dina Ionesco (IOM), “in questa ’Action COP’ sulle migrazioni, è importante passare dal dibattito politico all’azione reale, nonché procedere all’implementazione dell’accordo stesso”. Dal suo punto di vista “una risposta concreta al problema sarebbe dare ai migranti gli strumenti per non essere più considerati soggetti deboli e vulnerabili”. Un altro rappresentante dell’UNHCR ha continuato sostiene che “a causa di interessi economici, povertà, cambiamento climatico e disastri naturali, le persone migrano e continueranno a farlo. Questi movimenti di massa sono materia di diritti umani, anche se difficili da comprendere perché alla fine, ogni individuo è titolare del diritto alla vita e alla dignità, anche un migrante”. Di conseguenza, la soluzione è “fare la cosa giusta”, e cioè creare un sistema di giustizia in materia di clima. Nina Birkeland (NRC), inoltre aggiunge che “è necessario mettere insieme politiche globali ed esperienze locali. Abbiamo bisogno di azioni preventive per affrontare gli sfollamenti di massa, il principale obiettivo non può che essere prevenire ed educare alla resilienza”.