L’importanza delle storie e di continuare a raccontarle
Enrico Camanni è un alpinista, giornalista e scrittore. Al Trento Film Festival ha presentato il suo ultimo libro “Se non dovessi tornare”. Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo, spaziando dalle storie che racconta all’importanza di continuare a scriverle.
Intervista a cura di Beatrice Zita Passerini e Ilaria Bionda, nell’ambito del progetto Climagram di copertura educomunicativa e giornalistica del Trento Film Festival.
Articolo di Ilaria Bionda
–
“Sono un alpinista, faccio il giornalista e lo scrittore”. È il modo in cui ci si è presentato Enrico Camanni quando abbiamo avuto l’occasione di incontrarlo al Trento Film Festival, dove l’autore torinese ha partecipato per presentare il suo ultimo libro Se non dovessi tornare, in cui racconta la storia di Gary Hemming, un alpinista vissuto negli anni ’60 la cui figura è allo stesso tempo celebre e avvolta nel mistero. Su quest’opera e sull’importanza della scrittura abbiamo incentrato le domande della nostra intervista.
Che cosa l’ha spinta a scrivere di Gary Hemming? E perché lo ritiene un personaggio importante nel panorama alpinistico degli anni ‘60?
Gary Hemming è un personaggio che ho nel cuore da tantissimi anni: è un personaggio misterioso di cui si sa qualcosa, ma di cui ancora non sappiamo tutto, e di cui probabilmente non sapremo mai di più. Ritengo che sia meglio così, nel senso che ciò lo rende ancora più interessante. Hemming è un personaggio iconico degli anni ‘60 che però trovo ancora molto attuale, soprattutto per la sua relazione con la natura, con la montagna, con l’ambiente e anche con il mondo in generale.
Per cosa si è distinto?
A differenza di molti alpinisti, Hemming era inserito totalmente dentro il suo tempo, dentro il suo mondo, con tutte le contraddizioni del caso. Ed era uno che predicava la regola “non lasciamo tracce del nostro passaggio” che secondo me, oggi, è un tema molto importante su cui bisognerebbe riflettere. Io, alla fine, dopo tanto tempo, quello che ho letto sul personaggio ho deciso di affrontarlo in un romanzo. Se non dovessi tornare, infatti, non è un saggio, non è una biografia, è un omaggio che vuole entrare in profondità dentro l’uomo, più che dentro l’alpinista. Questo è infatti il taglio che ho dato al libro.
Oltre a questo suo libro, su Hemming ne sono stati scritti altri, è stato girato un documentario – presentato tra l’altro al Trento Film Festival nel ’97 – ed è stato realizzato recentemente, da lei, un podcast. Cosa ci può dire a riguardo?
Gary Hemming è stato trattato in modi diversi, sempre con qualche difficoltà relativa alle fonti perché è un personaggio un po’ nebuloso. Era lui il primo che cercava di non lasciare tracce della sua vita, esattamente come durante le sue scalate. Quindi è stato affrontato attraverso libri, articoli e anche attraverso un film molto prezioso di Jean Afanassieff, un bravissimo regista francese che era anche alpinista e guida alpina e aveva intervistato soprattutto i compagni di Gary Hemming: molti di loro non ci sono più ed è stato quindi utile e interessante riportare indietro dentro i ricordi, ma anche dentro l’atmosfera e l’ambiente del Monte Bianco. Poi io, recentemente, con Mondadori, prima dell’uscita del libro ho realizzato quattro podcast: ci sembrava utile inquadrare non tanto la storia quanto il contesto; quindi, il periodo e i luoghi in cui essa si svolge. Quella di affiancare ai libri dei podcast è una formula molto interessante e abbastanza nuova, perché il lettore legge da una parte e ascolta una storia dall’altra, e così si fa l’idea di dove questa storia è ambientata e soprattutto di che clima si respirava in quegli anni.
Che cosa cambia nella ricezione della narrazione tra le diverse forme di espressione come queste? Secondo lei è importante raccontare la stessa storia, in questo caso con diverse forme di comunicazione?
Io credo che la parola abbia una potenza enorme, però quando diventa troppo esplicativa, quando si cerca di dire tutto, non funziona più. E allora ci si affianca un altro tipo di parola: quella narrata, quindi il suono, il podcast, oppure l’immagine, come nel caso del film. Sono forme di comunicazione parallele, sono tutti linguaggi che, se si rispettano, creano una completezza nella comunicazione: questo è utile anche per raccontare la stessa storia. Io chiaramente vedo l’importanza di tutti i linguaggi, ma rimango affezionato al romanzo e credo che sia ancora attuale.
A proposito, sappiamo che i suoi libri alla libreria del Festival sono terminati. Quanto ritiene importante continuare a scrivere libri, raccontare storie attraverso i libri in un mondo tecnologico come quello di oggi?
A volte vengono dei dubbi, effettivamente, perché sembra che tutti sappiamo tutto, ma invece credo che sia proprio il contrario. Cioè noi sappiamo molto, abbiamo un’informazione a 360 gradi, che però a volte ci porta lontano dalla profondità del messaggio. E quindi io credo che i libri, così come i film, i film fatti bene, siano fondamentali, è il racconto ad essere fondamentale. Un racconto ha bisogno di un capo, una storia, un montaggio e una coda, non è una cosa improvvisata. Noi abbiamo bisogno di storie, ne abbiamo bisogno per capire la realtà che abbiamo intorno, ma anche il passato e il futuro. Il racconto, quindi, penso che sia ancora oggi come ai tempi dei miti greci: determinante. Vedo che la gente è d’accordo con me, nel senso che il fatto che il libro sia andato esaurito non è merito mio ma è merito di Gary Hemming e della sua storia. Io forse ho il merito di averla raccontata, ma è proprio una bella storia e noi abbiamo bisogno di storie.
Cosa prova a essere uno dei protagonisti della rassegna dedicata alla montagna e alle culture delle terre alte più antica del mondo?
Ho frequentato tantissime volte a vicende alterne il Trento Film Festival e sono tornato quest’anno dopo tanto tempo. È cambiato tanto, ho trovato un festival diffuso sulla città, che è una cosa che mi piace molto. Non ci sono più le grandi star di una volta che tutti aspettavano che arrivassero, oggi è tutto molto più distribuito, il che è più democratico, da un lato, e soprattutto permette di affrontare tanti messaggi che non sono più solo quello alpinistico. Evidentemente oggi l’ambiente è un tema centrale, per fortuna, e anche gli alpinisti devono fare i conti con questi temi. Ciò per me è un passo avanti, perché l’alpinismo è un’attività magnifica, che ti dà grandi soddisfazioni, ma spesso è un’attività introversa, nel senso che ci parliamo un po’ solo tra di noi e questo non mi ha mai convinto. Mi sembra che finalmente questo discorso sia stato totalmente superato e lo dimostrano i film, le mostre, gli incontri, lo dimostrano le persone che passano di qua. Lo dimostrate voi con il vostro impegno.