Le diverse forme della COP26

Una riflessione sulla complessità, l’esplosione di vita e il lato sordo ed esclusivo di una delle esperienze più spiazzanti che io abbia mai vissuto.

Di Gaetano Sciarotta

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Dopo quasi due settimane di negoziati è arrivato il tempo delle valutazioni, e mai come in questo caso mi ritrovo spaesato davanti alla sola idea di dover tirare le fila di ciò che ho vissuto negli ultimi dieci giorni. 

Non c’è dubbio, la COP26 è di gran lunga una delle esperienze più spiazzanti che io abbia mai vissuto. Non per il suo gargantuesco obiettivo, non per il semplice fattore quantitativo-umano, ma per la sua forma

Venendo qui mi aspettavo che la forma della COP fosse come quella di un calcolatore con centinaia di migliaia di voci che fanno a gara per fornire il proprio input, e che ci fosse poi qualcuno che, girando una manovella, li riversasse sotto forma di altrettanti output sul mondo con tutti i loro risvolti positivi e/o negativi. Le mie aspettative non potevano essere più lontane dalla realtà.

A primo impatto, la COP26 ha preso la forma di un dado dalle infinite facce, che rotola creando un costante alternarsi di tesi e antitesi la cui magia si arresta al palesarsi del convitato di pietra, la mancanza di una sintesi. 

Solitamente questo fatto non mi darebbe granché fastidio, ma questa volta le profonde differenze tra tutti i possibili piani di lettura erano così tante e profonde che per giorni ho provato la sensazione che dovesse esserci qualcosa che mi stava sfuggendo, un pezzo mancante del puzzle che non mi permetteva di mettere a fuoco il tutto. 

Ma la semplicità non è di per sé un valore, e durante il quotidiano ripetersi della nostra routine la forma del dado ha lasciato spazio ad una consapevolezza: la COP non ha una forma. E come potrebbe essere altrimenti? 

La COP è la tensione tra la voglia e l’etica del dare l’esempio e la necessità della pragmaticità nei negoziati. Il magnetismo tra i padiglioni di chi deve vendere, attraenti e ottimisti, e di chi deve comprare, funzionali e minimalisti. Il contrasto tra i colori degli attivisti, indigeni e artisti che scorre incrociando la sclerotica eleganza dei grigi burocrati. La proliferazione di lingue parlate tra i corridoi e il loro appiattirsi in inglese davanti ad un microfono. La forza dei cori delle proteste che entrando nella blue zone lascia spazio al cordiale scambiarsi delle business card.

Al di là dei negoziati, che rappresentano sicuramente la parte più importante di questa conferenza, l’apparente mancanza di forma della COP ci obbliga a studiarne la complessità, apprezzandone le esplosioni di vita e criticandone il lato uniformizzante, sordo ed esclusivo. 

Non so se un evento di questa portata possa essere diverso o migliore da quello che ho vissuto, e non saprei assolutamente dire come possa trasformarsi in meglio, ma sono assolutamente sicuro che il semplice porsi queste domande generi valore in sé.