Dalla COP26 di Glasgow tanti compromessi e poca ambizione
Alla fine alla COP26 di Glasgow è stato raggiunto l’accordo. Ancora mancati gli impegni coraggiosi per importanti tagli alle emissioni in questo decennio e verso la neutralità climatica nel 2050.
Di Elisa Calliari
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Se dovessimo individuare un luogo e una data in cui il problema dei cambiamenti climatici ha avuto inizio sarebbe ‘Glasgow, 1769’. Proprio qui, James Watt inventò la macchina a vapore, alimentata a carbone, che ha dato il via alla rivoluzione industriale e al conseguente surriscaldamento del Pianeta. Ed è proprio a Glasgow che il primo ministro britannico Boris Johnson ha voluto ospitare la COP26, la ventiseiesima Conferenza sui Cambiamenti Climatici, che si è chiusa sabato scorso alle 10 di sera con l’ormai tradizionale giornata di ritardo rispetto alla fine dei lavori.
Obiettivo centrale della Conferenza era quello di aumentare l’ambizione nella lotta ai cambiamenti climatici in termini di mitigazione (tagliare le emissioni) e adattamento (evitare e minimizzare gli impatti negativi su persone, economia ed ecosistemi), aumentando al contempo gli impegni finanziari dei paesi sviluppati per accompagnare transizione verso società a basse emissioni di carbonio e resilienti.
L’Accordo di Parigi (2015) mira a mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C, facendo tutto il possibile per contenerla a 1.5°C entro la fine del secolo. Per farlo sono necessarie misure urgenti: la temperatura media globale è aumentata di 1.1°C rispetto al periodo pre-industriale, con effetti devastanti che stiamo già vivendo.
La prima settimana della COP26 è stata puntellata da una serie impegni politici per la riduzione delle emissioni, come quello relativo a fermare la deforestazione entro il 2030, quello legato alle riduzioni di metano (-30% al 2030), o lo stop alla costruzione di nuove centrali a carbone. Alcune stime diffuse durante i negoziati suggeriscono che queste misure, unite all’impegno di alcuni paesi a raggiungere la cosiddetta ‘neutralità carbonica’ intorno alla seconda metà del secolo (ossia ad un bilancio nullo tra i gas emessi in atmosfera e quelli che riusciamo a rimuovere), potrebbero ridurre l’aumento della temperatura a 1.8°C al 2100. Ma ci sono due problemi. Il primo è che gli impegni su deforestazione, metano e carbone sono impegni presi al di fuori dei meccanismi dell’Accordo di Parigi, e quindi volontari e non monitorabili. Considerando invece i piani di azione climatica previsti dall’Accordo (i cosiddetti ‘Contributi Nazionalmente Determinati’) che quasi tutti gli stati hanno presentato prima della COP26, l’effetto aggregato dei tagli delle emissioni risulterebbe in un più preoccupante aumento di 2.4°C.
Il secondo problema è che in entrambi i casi sono ben lontani dall’obiettivo di +1.5°C che consentirebbe di evitare i rischi maggiori del riscaldamento globale. Per aumentare l’ambizione, il Glasgow Climate Pact adottato alla COP26 richiede agli Stati di presentare dei piani di azione climatica più incisivi entro il 2022, di valutare il loro effetto aggregato annualmente (per poter così correggere la rotta), e sprona ad accelerare l’impiego di fonti di energia rinnovabili, riducendo in modo graduale l’uso del carbone come fonte energetica ed eliminando i sussidi ‘inefficienti’ ai combustibili fossili. Quest’ultimo è un segnale politico importante perché nessuna decisione della COP aveva mai menzionato – e sanzionato- i combustibili fossili prima d’ora.
Tuttavia, il linguaggio resta debole perché lascia lo spazio ad alcuni paesi, come l’India, per continuare a sussidiare le fonti fossili sulla base di un non ben specificato criterio di efficienza. Un risultato chiave in termini di mitigazione è stata invece la definizione delle regole dei mercati internazionali del carbonio, che consentono di scambiare i risultati di riduzione delle emissioni tra Stati, e che si trascinava dal 2018.
Per quanto ambiziosi saremo nel tagliare le emissioni, il clima sta già cambiando, continuerà a farlo ed i suoi effetti negativi a materializzarsi. Alla COP26 l’adattamento è stato un tema centrale grazie all’attenzione posta dai paesi in via di sviluppo, i quali spesso mancano delle risorse conoscitive, tecniche e finanziarie per prepararsi e affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici e quindi ne subiscono le conseguenze più devastanti.
Il Glasgow Climate Pact riconosce la centralità dell’adattamento e chiama i paesi sviluppati a più che raddoppiare i finanziamenti concessi ai paesi in via di sviluppo, riconoscendo come la maggior parte delle risorse finanziarie (i cui volumi sono comunque largamente insufficienti) sia tuttora rivolta a progetti di riduzioni delle emissioni.
Sul tema della finanza climatica, più in generale, sono stati mossi dei passi importanti sulla definizione di un nuovo goal al 2025, volto a superare l’obiettivo attuale di mobilizzare 100 miliardi di dollari l’anno per i paesi in via di sviluppo fino al 2020 – tra l’altro sistematicamente disatteso. Un ultimo tema particolarmente importante e controverso è stato quello delle perdite e danni, ossia gli impatti dei cambiamenti climatici cui adattarsi è impossibile o troppo costoso dal punto di vista umano e materiale. Si tratta di una delle questioni più divisive perché storicamente legato a richieste di compensazione finanziaria da parte dei paesi più vulnerabili.
Nei discorsi di chiusura, tutti i paesi hanno sottolineato di non essere pienamente soddisfatti dell’accordo di Glasgow, di come avrebbe potuto e dovuto essere più ambizioso, e del processo non sempre trasparente ed inclusivo della presidenza britannica. L’hanno definito come un compromesso necessario. Il Sesto Rapporto dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) sulle basi fisico-scientifiche dei cambiamenti climatici, pubblicato ad agosto e citato dal Glasgow Climate Pact, è stato definito come un ‘codice rosso per l’umanità’. Un monito di come i compromessi, tanto necessari in politica, forse perdano di senso davanti alla crisi climatica che stiamo affrontando.