L’Ashaninka Marishöri e la sua Alleanza per difendere Madre Natura

Marishöri Najashi Samaniego Pascual ha il privilegio di venire da una cultura, quella Ashaninka, in cui il rispetto per l’ecosistema terrestre e la necessità di vivere in armonia con esso sono ancora valori fondamentali. La giovane indigena amazzonica ha trasformato il suo bagaglio etico in azione, partecipando a diverse iniziative di carattere ecologista.
Marishöri evoca un’unità globale che sembra sempre a portata di mano, ma che di fatto è ancora lontana. Anche perché, di popoli nativi e dei loro tanti problemi, si parla sempre troppo poco. Nessuno ha detto, per esempio, che lo scorso 20 agosto è stato ucciso l’attivista indigeno Jorginho: leader del popolo nativo brasiliano Guajajara e da tempo impegnato a fianco della sua gente nella lotta per la difesa dell’Amazzonia e del territorio dell’incontattato popolo Awá. È stato con ogni probabilità ucciso dai taglialegna contro cui tanto combatteva. È morto perché troppo isolato nella battaglia per salvare Madre Natura.
E a proposito di Madre Natura, vorremmo parlare dell’Alleanza dei Guardiani di Madre Natura. Lei ne fa parte, giusto? Può raccontarcela?
Effettivamente, faccio parte e sono ambasciatrice del Comitato direttivo dell’Alleanza dei Guardiani di Madre Natura. Colgo volentieri l’opportunità di presentarla e per sottolinearne la particolarità – perché è il primo movimento fondato sulla stabile alleanza di leader indigeni e influenti personalità non indigene. I primi rappresentano la maggior parte dei nativi brasiliani e nordamericani, gli Ashaninka e altre genti autoctone di Asia e Africa. Tra i secondi, invece, ci sono l’ambientalista canadese Paul Watson (fondatore della Sea Shepherd Conservation Society), il musicista e attivista Bernard Lavilliers e l’artista e attivista Pierre Richard.
Personalmente, sono entrata a far parte dell’Alleanza nel 2015, dopo la COP21 [Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici]. Sono una Guardiana della prima ora, dal momento che il movimento è nato per esprimere le preoccupazioni dei popoli indigeni proprio in occasione di quella Conferenza ONU. Questo obiettivo, però, i fondatori dell’Alleanza lo stavano rincorrendo già da tre anni. E nel 2015, a Parigi, sono riusciti a organizzare la prima Assemblea, che ha elaborato un documento poi presentato all’allora Presidente francese (François Hollande) e al segretario ONU Ban Ki Moon. Quella dichiarazione conteneva 17 proposte per proteggere Madre Natura.
Ad oggi, nessuna delle istituzioni e dei governi interpellati ha dato segno di aver preso in considerazione la nostra Carta. I potenti sanno però dell’esistenza dell’Alleanza dei Guardiani di Madre Natura. E noi siamo coscienti della portata e del valore del nostro progetto. Avanziamo lentamente, perché siamo neonati, ma siamo tenaci e determinati. Anche perché abbiamo ricevuto molto sostegno da parte dell’opinione pubblica: siamo infatti riusciti a organizzare la nostra seconda grande Assemblea dell’Alleanza [Brasilia, ottobre 2017] grazie ai soldi raccolti attraverso un crowd-founding!
L’incontro è stato fondamentale per connetterci, per condividere le nostre esperienze ed elaborare piani di intervento concreto. Abbiamo aggiunto un altro suggerimento nella nostra carta, cosicché ora parliamo di diciotto Proposte.  Abbiamo incontrato gli Ashaninka brasiliani che vivono nella regione di Acri, molto attivi nella protezione del loro territorio, per coinvolgerli nella nostra iniziativa: vogliamo trarre ispirazione da loro e sostenere i loro progetti di rimboschimento e di pesca sostenibile (che loro attuano per proteggere le tartarughe).
Sono convinta che, oggi e in futuro, il più importante vantaggio portato dall’Alleanza al movimento ecologista sia l’unione di tutti i popoli indigeni.
Confrontando le reciproche situazioni, infatti, ci siamo accorti e capiamo con crescente chiarezza che siamo accomunati da uno scopo comune, ossia proteggere Madre Natura. Desideriamo poi che il piccolo gruppo di non indigeni che ci appoggiano cresca, perché è un modo per ottenere sempre più visibilità.
Il movimento è quindi attivo su tre fronti: politico, legale e mediatico.
Personalmente, credo che sia fondamentale includere la comunità internazionale nella battaglia portata avanti dall’organizzazione: solo una più acuta consapevolezza collettiva del pericolo corso dall’ecosistema può responsabilizzare i governi e le compagnie private. Perché mi rendo conto che combattiamo contro i potenti, contro coloro che dispongono di soldi e mezzi molto più abbondanti dei nostri.
Ha menzionato la COP21: l’Alleanza dei Guardiani di Madre Natura ha partecipato anche alla Conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici numero ventitre. In qualità di ambasciatrice del suo popolo e di rappresentante dell’Alleanza, lei ha partecipato in prima persona ai lavori della COP. Che cosa ci può dire dell’evento? E che cosa significa la sua partecipazione ad esso?
Ho avuto l’opportunità di partecipare a due Conferenze ONU sui Cambiamenti Climatici: quella di Parigi del 2015 e quella di Bonn del 2017. Mi è dispiaciuto che molti Paesi non abbiano sottoscritto l’Accordo del 2017. Pensavamo si potesse fare un passo avanti rispetto a quello di Parigi: in quell’occasione l’Accordo finale fu ratificato solo da 90 dei 100-109 Paesi partecipanti. Però era stato comunque un grande incontro… Mentre penso che oggi [nel 2017], con l’uscita degli Stati Uniti dal negoziato, il progetto internazionale per la difesa dell’ambiente abbia subito una battuta d’arresto.
E questo è un problema che riguarda da vicino noi popoli indigeni. Come ho già detto, le popolazioni native sono in balia dei molti agenti, statali o multinazionali, che distruggono i loro territori e le loro risorse: sono i più esposti al problema della distruzione della natura, dell’inquinamento, della siccità, etc. perché non hanno mezzi abbastanza efficaci per far valere la loro opinione.
Per questo motivo, le decisioni prese durante le Conferenze sul clima ci coinvolgono, interessano e influenzano molto. Fortunatamente, molti ne hanno consapevolezza. Molte persone che non sono indigene riconoscono il pericolo che corriamo, vogliono aiutarci: ma i potenti vedono la foresta solo come una risorsa da sfruttare, come qualcosa di morto che può solo produrre guadagno per loro.
In questa prospettiva, la mia presenza a Bonn – ma penso  che valga lo stesso per tutti i leader dei popoli indigeni presenti – è motivata dalla preoccupazione e dalla necessità di entrare in dialogo con i rappresentanti degli Stati più forti. Occasioni come questa sono momenti per iniziare un cambiamento che porti a riconnettersi con la natura, in modo che la società umana sia in grado di affrontare e sconfiggere i cambiamenti climatici.
La COP23 ha portato a due risultati degni di nota: l’approvazione del Dialogo di Talanoa, ossia una piattaforma che permetterà il confronto tra istituzioni ONU e popoli indigeni sul tema dell’ecologia e delle politiche ambientali. Pensa che Talanoa possa essere uno strumento utile per innestare elementi delle culture tradizionali indigene nei processi che portano all’elaborazione di strategie per la difesa della natura?
Sono molto contenta della nascita del Dialogo di Talanoa: penso sia giusto che le popolazioni indigene abbiano un mezzo economico e accessibile per comunicare i propri punti di vista e suggerire soluzioni.
Credo anche che Talanoa possa rivelarsi un medium utile per mostrare a tutto il mondo la quotidiana lotta delle popolazioni indigene per la salvaguardia delle loro regioni. E per dimostrare che le nostre strategie di salvaguardia dell’ecosistema funzionano, che possono e devono essere incluse in più ampie politiche – le quali sicuramente hanno bisogno di progettazioni più ampie di quelle che possiamo fare noi da soli.
Ci potrebbe parlare delle strategie messe in atto dalla sua comunità?

La mia comunità ashaninka si trova nel dipartimento Junin in Perù. La zona è forse meglio conosciuta come Selva Centrale peruviana. Oltre che dai problematici residui del suo passato coloniale, la mia regione è danneggiata anche dai cambiamenti ambientali.
Prima di proseguire, voglio precisare un punto: non ritengo che lo sviluppo sia causa di tutti i mali. Al contrario, lo sviluppo può essere un fatto molto positivo: però deve essere animato dalla volontà di includere le popolazioni indigene, di consultarle e, soprattutto, di rispettare le risorse naturali.
Ora, la Selva Centrale è in forte crisi. Molte comunità non hanno risorse idriche loro sufficienti. La siccità è impressionante: in estate, non c’è acqua. Nemmeno una goccia. Le poche che rimangono sono completamente inquinate dagli scarichi delle miniere e da sostanze chimiche prodotte dai centri urbani.
Questi sono i problemi principali che affliggono la mia comunità. Sono noti, le autorità e non solo li conoscono… Però nessuno fa nulla. Abbiamo paura che dovremo abbandonare la nostra terra per cercare risorse altrove. Prima, comunque, faremo sentire la nostra voce il più forte e lontano possibile: abbiamo bisogno di aiuto.