Alexander Jawfox/Unsplash

Vittima di guerra

Nel 2016, durante la guerra civile lampo in Sud Sudan, una cooperante italiana viene stuprata dai soldati dell’esercito governativo. Per anni chiede giustizia nell’indifferenza delle istituzioni non solo italiane. Ora l’ha finalmente avuta.

di Desirée Tripodi, articolista di Agenzia di Stampa Giovanile

Ci sono storie fatte della stessa materia di cui sono fatte le guerre, storie che superano i confini dello spazio e del tempo. E non conoscono nazionalità.

Sabrina Prioli, cooperante italiana, vittima di stupro in Sud Sudan

Sabrina – aquilana – studia Sociologia e si specializza in Project Management per la Cooperazione Internazionale. Lavora come consulente in Africa, Amazzonia, Sud America (dalla Colombia al Perù). Chiusa una relazione abusiva e colpita dal terremoto dell’Aquila, dovrà ricominciare daccapo, ancora una volta, dopo una missione in Sud Sudan che la segnerà per sempre. Oggi è una Professional Coach, si occupa del burnout del cooperante e supporta le vittime di violenza.

Sud Sudan, luglio 2016

Assunta dall’impresa Management Systems International (MSI) – che lavora per l’Agency for International Development statunitense (USAID) – Sabrina arriva nella capitale Giuba. Il suo compito è creare colloqui di pace tra il governo e le tribù.

Poco dopo però scoppia la guerra civile lampo: per sette giorni le truppe governative di Salva Kiir Mayardit e quelle dell’opposizione di Riek Machar Teny-Dhurgon lotteranno per il potere. Lei e i dipendenti di altre organizzazioni alloggiano presso il Terrain Hotel, un compound residenziale certificato dalle Nazioni Unite che si scoprirà avere gravi falle nella sicurezza. Restano isolati. Nessuno – inclusi i Caschi Blu (ad appena un chilometro di distanza), le ambasciate in primis americana, le società di sicurezza private – li porta al sicuro, nonostante le loro suppliche.

Foto Alexander Jawfox/Unsplash

Quando i soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione (SPLA) – la forza militare nazionale – fanno irruzione, è un susseguirsi di atti vandalici, saccheggi, torture, stupri anche di gruppo, pestaggi. Sabrina assiste all’esecuzione di un giornalista locale, viene ripetutamente violentata, picchiata con i fucili, quasi soffocata con una bomboletta di DDT. Stessa sorte per altre operatrici umanitarie.

Il National Security Service non mette subito in salvo tutti gli ostaggi. Malgrado il cessate il fuoco, lei è tra gli ultimi ad uscire. Viene evacuata su un aereo americano con un timpano rotto, l’ombelico da ricostruire, problemi neurologici alla schiena. Comincia a soffrire di stress post-traumatico e tornerà a vivere solo grazie ad un lungo percorso di psicoterapia.

Foto UNMISS

Sabrina rende la sua storia pubblica per ottenere giustizia. Non avendo nessuna organizzazione denunciato l’accaduto, l’unica possibilità è il processo civile – non penale – intentato dalla società proprietaria del Terrain Hotel per il risarcimento dei danni. Nell’agosto 2017 chiede di testimoniare davanti alla Corte Marziale del Sud Sudan tramite Skype, ma glielo negano pensando di farla desistere. Invece parte, e lo fa a sue spese. Riceve l’appoggio logistico dell’ambasciata italiana ad Addis Abeba e la protezione di quella americana. Parla per sei ore e altre vittime seguiranno il suo esempio.

Nel settembre 2018 la Corte militare condanna due soldati all’ergastolo e altri otto a pene dai 7 ai 14 anni di carcere. È la prima volta che i membri del SPLA vengono giudicati colpevoli di crimini di guerra riconosciuti a livello internazionale, inclusa la violenza sessuale. Per quanto riguarda i risarcimenti, il proprietario del compound riceve 2.5 milioni di dollari; la famiglia del giornalista assassinato 51 capi di bestiame; le vittime appena 4.000$, una cifra umiliante. Sabrina rifiuta, eppure non può ricorrere in appello perché il file del processo scompare.

Foto Bullen Chol/AP

Come conseguenza dell’attacco, l’ONU avvia un’indagine speciale che porta alla rimozione del tenente generale kenyota a capo della Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (UNMISS): non ha risposto alle richieste di aiuto degli ostaggi.

All’inizio Sabrina è sola. Le organizzazioni americane per cui lavorava e il Ministero degli Affari Esteri italiano la ignorano. Al suo rientro a Roma, dopo essere stata curata in Kenya, trova soltanto la sua famiglia. Non riceve assistenza né medica né legale. La sua denuncia alla Procura della Repubblica viene archiviata. Però non si arrende. Nel 2019 comincia la negoziazione con lo Stato africano per una più equa riparazione, mentre in Italia il suo caso viene preso in considerazione nel 2020, sotto la spinta di alcune interrogazioni parlamentari.

Il libro di Sabrina Prioli

Luglio 2022

Sabrina annuncia di aver raggiunto un accordo transattivo – i cui termini sono riservati – con il Sud Sudan. Ha accettato il risarcimento, pur ridotto rispetto a quanto chiesto, per mettere la parola fine a questa terribile storia. Durata sei anni.

Adesso lo può dire: giustizia è stata fatta.

Mi sono battuta in tutti questi anni perché la violenza sessuale usata come arma di guerra fosse sempre e ovunque punita. Ho vinto la mia battaglia personale e continuerò a lottare per chi non può farlo

Sabrina Prioli a “Il Messaggero”