Mettiamoci la faccia – stereotipi sull’antropologia a rovescio

di Rosa Maria Currò, articolista dell’Agenzia di Stampa Giovanile

Fotografie di Francesca Strano e Chiara Musu

Una verità universalmente riconosciuta tra gli studenti di antropologia è che veramente poche persone sanno di cosa ci occupiamo. Già dopo il primo mese di università tra i nostri ricordi peggiori troviamo i momenti in cui ci è stato chiesto: “E tu che cosa studi?”. La nostra risposta porta spesso a momenti di imbarazzo. Occhi sgranati, espressione stupita e lieve cenno di assenso con la testa, un generico: “Bello!”. Il nostro interlocutore ci lascia in sospeso. Poi il ghiaccio si scioglie e, a meno che la persona di fronte a noi non sia effettivamente erudita in materia di antropologia, arriva il momento decisivo. Il momento che ha spinto Aurora, una delle protagoniste della nostra storia, a dare corpo al suo progetto “Convergenza di soggetto e oggetto”. Il momento in cui il nostro interlocutore ci guarda e, con l’espressione più genuina del mondo, dice: “Quindi studi le razze?”. In realtà ci sono mille versioni di questa domanda che, involontariamente, ci lanciano addosso una valanga di stereotipi sulla nostra materia. Specificatamente, quella che ha spinto la nostra Aurora è stata: “Ah ma voi fate tassonomie?”. Questa pratica, usata a inizio Novecento e ormai ampiamente abbandonata, rimane connessa all’antropologia nell’immaginario comune e lei, come molti di noi, non riusciva più ad accettarlo.

Il suo progetto si propone come un tentativo di rovesciare gli stereotipi riguardo all’antropologia. Provando a informare attraverso un’installazione di grande impatto: un muro di volti, questa volta di studenti e studentesse di antropologia, che verrà esposta nel corso del RiFestival, in Via Zamboni, 38 a Bologna. Vedendo la comunanza d’intenti con il nostro progetto “Identità S’confinate”, noi dell’Agenzia di Stampa Giovanile abbiamo pensato di dare voce al suo progetto, facendo parlare lei e alcune partecipanti che hanno voluto condividere i loro pensieri. Ecco a voi le voci di chi ha reso possibile tutto questo.

Aurora Pozzi – Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali – organizzatrice

Quest’idea si è delineata nella mia mente circa un anno fa, durante una lezione di Storia dell’Antropologia nella quale venne proiettata l’immagine della parete di un museo etnologico interamente ricoperta di calchi di visi. Credo di essere rimasta profondamente impressionata da questa visione. Decine di facce cristallizzate per sempre, esposte agli occhi di tutti e allo stesso tempo private della propria identità, senza un nome e senza storia. Individui con un proprio vissuto materialmente trasformati in oggetti. Oggetti con sembianze umane considerati esemplificativi della persona, esseri umani trattati come materia da classificare e studiare. Ho pensato che tutto ciò non fosse giusto, sentivo l’esigenza di esprimere il mio dissenso, anche se non sapevo bene come.

Dopo aver parlato di questa cosa con alcune persone ho deciso di proporre, a chi volesse farlo (specialmente studenti di antropologia), di provare l’esperienza di farsi fare un calco in gesso con modalità simili. Quest’operazione dà la possibilità di sentire sulla propria pelle cosa significhi essere sottoposti a un calco e conferisce allo studente di antropologia la possibilità di “porsi dall’altra parte”.

Ho iniziato a diffondere il progetto attraverso il passaparola, tra una lezione e l’altra. Non avevo grandi aspettative, è stata per me una grande sorpresa trovare così tanto consenso tra i miei compagni e vedere tante persone disposte a mettersi in gioco con entusiasmo.
La riuscita di questo progetto è stata possibile proprio grazie alla collaborazione, soprattutto con gli studenti, ma anche con i professori, dell’Accademia di Belle Arti. Si sono dimostrati fin da subito disponibili, pronti ad ascoltarci, a insegnarci tecniche e a mettere a disposizione spazi e materiali. Molte persone hanno dato un loro contributo, in particolare realizzando fotografie che testimoniano il processo e il lavoro che sta dietro all’esposizione, scattate sia da studenti di fotografia che da studenti di antropologia.

Per quanto riguarda me, sono felice di aver utilizzato l’arte come mezzo espressivo e di averla fatta dialogare con l’antropologia. È stato molto interessante essere stata, sia sottoposta al calco, sia aver realizzato fisicamente gli altri. Ho trovato incredibile che da un procedimento tecnico identico per tutti, le impressioni e le sensazioni da esso suscitate siano state tanto differenti da persona a persona.

Edoardo Sessa – Accademia di Belle Arti – organizzatore

Per molti mesi Aurora e io abbiamo parlato di questo progetto e finalmente ora lo vediamo concretizzarsi grazie a RiFestival e all’impegno costante che vi abbiamo dedicato negli ultimi due mesi fino ad ora.

È una bella soddisfazione e sento di dover ringraziare tutti coloro che ci hanno messo la faccia, ringraziarli non solo per la realizzazione materiale del progetto ma per l’esperienza in sé. Si riesce solo ad immaginare in parte il lavoro che c’è dietro ogni viso. Ognuno di essi cela il tempo, le parole e i luoghi vissuti insieme.

Aurora è stata la prima a sottoporsi al calco facciale, il primo tassello del mosaico, io l’ultimo,ed è stata proprio lei a farlo a me. In molte occasioni i ruoli si invertivano, chi realizzava manualmente il calco successivamente vi si sottoponeva e magari diventava fotografo e poi aiutante. Non c’era un centro o una vera e propria gerarchia, non c’erano etichette nelle quali bisognava rientrare, tutto cambiava e tutto funzionava.

In quanto studente di scultura dell’Accademia di Belle Arti ho apprezzato molto vedere persone coinvolte in un ambito diverso dal loro e approcciarsi a diversi materiali che noi usiamo in laboratorio. Questo progetto ha coinvolto emotivamente molte più persone di quante se ne vedano nel lavoro finito. Considero questo uno dei progetti meglio riusciti e sicuramente lo ricorderò, come tutti coloro che hanno partecipato, come un’esperienza unica

Francesca Strano – Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali – partecipante

Ho affidato il mio viso ad Aurora ed Edoardo e loro, con estrema delicatezza, ne hanno fatto una copia. Ogni particolare è stato riprodotto e mi è sembrato di dare loro una parte di me, una parte importante, la chiave che uso per accedere al mondo. Con il mio volto, infatti, mi affaccio alla realtà: la osservo, la annuso, la sento. Il mio viso è anche ciò che gli altri più conoscono di me ed è ininterrottamente esposto al loro sguardo e al loro giudizio. Fare antropologia è anche questo d’altronde: metterci la faccia. L’antropologia oggi non si limita più a fare i calchi a persone che considera inferiori, meri oggetti da misurare e da studiare: nel 2019 l’antropologia è in grado di ribaltare la situazione, di fare i calchi agli stessi antropologi, di mettere in discussione le categorie del suo passato.

Bianca Arnold – Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali – partecipante

Aurora mi ha parlato del progetto alcuni mesi fa, e mi ha subito attratto. Mi affascinano molto i cambi di prospettiva messi in pratica con l’aggiunta di creatività. Le ho subito detto che ero interessata. Così sono stata tra i primi a farsi fare il calco. Vedendo il progetto mi piacerebbe che emergesse l’idea appunto di questo cambio di prospettiva, di mettersi nei “panni” degli altri, dell’oggetto studiato invece di cristallizzarsi nel ruolo della persona che studia. Anche se questo comporta la scomodità. Infine più banalmente che siamo tutti “diversi” e tutti esseri umani, con un volto. Sinceramente, lo rifarei subito! Trovo che abbia un alto esponenziale di comunicazione per il forte impatto visivo.

Marta Ciceri – Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali – partecipante

Basta poco per far assumere una forma concreta a un’idea. È un passo decisivo ma tutt’altro che scontato. Da quando mi sono avvicinata all’antropologia sono rimasta affascinata dagli infiniti modi di approcciarsi ad essa e dalle ancor più numerose modalità di mettere in pratica ciò che la nostra disciplina ci trasmette, con scopi spesso anche molto differenti, cercando di svincolarsi dal mondo dell’accademia a cui forse è ancora troppo legata. Quando poi il messaggio che si vuole trasmettere incontra l’arte, il suo impatto sullo spettatore è sicuramente maggiore e smuove corde che un testo informativo è più difficile che riesca a raggiungere.

Aurora ci ha parlato del suo progetto un pomeriggio fuori dall’università: sia la semplicità con cui la sua spiegazione assumeva un senso e, lo ammetto, sia l’idea che al mondo potesse esistere un calco della mia faccia, mi hanno portato ad accettare subito di partecipare. Essendo una disciplina relativamente “giovane”, l’antropologia è mutata drasticamente nel corso di un paio di secoli, e le sue radici affondano in un terreno che gli studi più recenti non solo hanno superato, ma piuttosto rifiutano e confutano. È forse questa sua caratteristica di repentinità, unita nell’immaginario comune ad una banale esoticità che rappresentava gli studi di inizio ’800, che hanno reso l’antropologia una materia così poco conosciuta e misinterpretata.

Per chi studia antropologia nel 2019 sottoporsi a questa pratica quindi sembrerebbe significare quasi un’aperta manifestazione di rassegnazione, uno stanco ritorno alle origini, ma piuttosto significa rimarcare con la modalità d’impatto che solo l’arte può dare, la voglia di parlarne ancora, rendere l’idea che l’antropologia è in realtà tutt’altro che una parete di volti in un museo, che è una disciplina viva e anzi, pronta a ribattere e dibattere. Tutto questo è racchiuso nel mio calco e negli altri dei miei compagni. I quaranta minuti in cui sono dovuta rimanere ad occhi chiusi nel buio più assoluto del gesso che ricopriva l’intero mio viso, sforzandomi di non muovere alcun muscolo pur rassicurata dalle voci che mi circondavano sono in realtà volati. È stato come un percorso sensoriale, prima il gesso era fresco a contatto con la pelle, ma mano a mano che passavano i minuti esso diventava sempre più caldo e pesante, per via del suo processo di solidificazione. Spaesamento e senso di impotenza erano inevitabili e la sensazione più forte è stata forse l’impossibilità di partecipare a quello che stava accadendo tutt’intorno a me.

Passati i minuti necessari alla solidificazione, il gesso era diventato nuovamente freddo, e quando mi è stato staccato dal viso ed ho percepito la luce filtrare attraverso lo spiraglio formatosi in cima alla fronte, con gli occhi ancora serrati, è stato fortissimo. Una volta staccatosi del tutto non ho fatto a meno di sorridere e stiracchiare i muscoli del viso, ma fino a quando non ho lavato via ogni rimasuglio di gesso non ho potuto aprire di nuovo gli occhi. Rivedere che attorno a me nulla era cambiato nel laboratorio dell’Accademia quasi mi ha sorpreso, ma anche rassicurato.

Clara Vivaldini – Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali – partecipante

Il progetto dei calchi prende piede da una riflessione fatta da Aurora riguardo alle tassonomie che usavano fare gli antropologi negli anni ’40. Il progetto inizialmente ha fatto nascere in me delle riflessioni: io sarei stata comoda su una sedia mentre altri esseri umani sono stati legati con la forza, io accetto di partecipare mentre loro sono stati costretti, io accetto sapendo come è stato compiuto in passato poiché è un modo per far conoscere, è un’esperienza sensoriale interessante. Ma ho sentito che, nonostante l’idea fosse stata rifiutata da professori, essendo partita da una mia compagna di corso era giusto supportarla.

Considerando l’antropologia una disciplina complessa e vasta, credo che il primo passo per farla conoscere sia eliminare tutti gli stereotipi che la riguardano. Il progetto richiama una pratica e un concetto di “razza” ormai superati e mettendo noi dalla parte dell’oggetto “studiato” facciamo un primo passo per dire che siamo disposti a metterci in gioco per primi pur di eliminare determinate categorie e discriminazioni, per un progresso della disciplina.

Ringraziando tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del progetto e di questo articolo, concludo invitando ogni lettore ad accogliere questi pensieri e svilupparne di nuovi. Diamo nuovo respiro e nuova diffusione a materie che rischiano di essere sempre più fraintese e chiuse in stereotipi.