I popoli indigeni minacciati dai grandi progetti “verdi”

“Safeguarding the rights of Indigenous Peoples in business-driven climate action” è il side event della COP27 che ci racconta la logica colonialista che sta minacciando le terre dei popoli indigeni per creare grandi impianti per l’energia rinnovabile. 

Di Emanuele Rippa

Ieri pomeriggio – mercoledì 9 novembre – alla COP27 si è parlato della necessità di salvaguardare i diritti dei popoli indigeni dall’aumento dei progetti di energia rinnovabile e dall’estrazione di minerali di transizione nelle loro terre. Senza alcuna tutela questi progetti, aumentati insieme al flusso dei finanziamenti per il clima, rischiano di violare i diritti e di non aiutare la lotta alla crisi climatica. 

Emerge dal continuo aumentare di casi di land grabbing (accaparramento di terra), attuati da grosse aziende dei settori traino per la transizione energetica, la necessità di aprire un dialogo sull’importanza del rispettare le comunità indigene e di ottenere il consenso libero, previo e informato (FPIC), necessario secondo la legge internazionale, prima di approvare qualsiasi progetto che riguardi le loro terre. 

Alla conferenza hanno partecipato due portavoce appartenenti a comunità indigene: Áslat Holmberg, appartenente alla comunità indigena Saami in Norvegia; e Rodion Sulyandziga, appartenente alla comunità indigena Udege, che vive nei territori della Siberia orientale. 

I due hanno riportato le loro testimonianze riguardo ad esperienze di land grabbing e di inquinamento dell’ambiente e delle risorse naturali da parte di grandi aziende attive nei settori più importanti per la transizione energetica. 

Áslat ha riportato la storia della sua comunità e delle famiglie impossibilitate a portare avanti le loro attività di sostentamento a causa della costruzione di un enorme parco eolico, il più grande continentale d’Europa, sul loro territorio. Il parco, che conta 151 turbine eoliche e 130 km di strade, è stato costruito senza il consenso del popolo Saami, che dal principio ha messo in chiaro che questo progetto avrebbe violato i loro diritti e limitato loro l’accesso alle loro stesse terre. 

Rodion invece ha raccontato di come la sua comunità e l’Artico Russo siano minacciati dall’azienda Nornickel, una delle più grandi estrattici di nichel e palladio al mondo, dalla quale anche Tesla acquista i materiali per le sue batterie. Per i popoli indigeni l’Artico non è una regione morta, ma uno spazio vivo e fondamentale, il governo russo però ha grandi interessanti su questa zona, ricca di minerali, petrolio, gas e diamanti. I pesanti effetti collaterali delle industrie estrattive nella zona sono risultati estremamente chiari a maggio del 2020, quando a causa di un incidente 21 tonnellate di carburante sono state disperse nella tundra, nei fiumi e nei laghi circostanti.

A seguito di queste testimonianze Eileen Mairena Cunningham, “osservatrice dal Sud” del Green Climate Fund, ha evidenziato a questo riguardo le criticità dei finanziamenti dell’istituzione, spiegando che nonostante il Green Climate Fund abbia delle linee guida, un gruppo di difesa e un gruppo consultivo per le comunità indigene, l’approvazione dei progetti è molto difficile da monitorare e molto spesso i finanziamenti finiscono nelle mani di grande banche come la Banca Mondiale. Questo perchè le proposte sono così tecniche che è difficile per le persone appartenenti alle comunità indigene persino comprenderle. 

Mentre gli enti beneficiari dei finanziamenti sono ciechi ai bisogni dei popoli indigeni e provano a seguire vie che non ne implichino la collaborazione, le linee di condotta del Green Climate Fund dovrebbero fare si che il fondo non solo non rechi danno a questi popoli, ma che faccia intenzionalmente i loro interessi. Per fare questo, la dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni dovrebbe essere utilizzata come documento guida per il finanziamento di progetti nei loro territori, ai quali il consenso dovrebbe essere l’unica via di accesso possibile. 

Áslat ha ricordato che le leggi dei governi coloniali, basate sulla presunzione che questi stati abbiano il diritto di prendere le terre dei popoli indigeni e decidere cosa farne, sono alla base del sistema che ci ha portato in una crisi climatica ed ecologica. I governi dovrebbero capire che la protezione delle terre dei popoli indigeni è essa stessa un’azione per il clima. 

Áslat ha infine dichiarato: “Ogni azione di land grabbing viene dipinta con vernice verde, con la scusa che sia necessario colonizzare le nostre terre per salvare il pianeta, ma le emissioni continuano a salire, è il momento di ammettere che questa non è la soluzione”.