Conclusa la COP27: un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto di risultati

Il risultato più importante, che potrebbe essere definito storico, è la creazione di un Fondo sulle Perdite e i Danni. 

di Roberto Barbiero e Paulo Lima 

Si è conclusa nella mattinata di domenica, dopo ore di estenuanti negoziati notturni, la ventisettesima Conferenza delle Parti di Sharm el-Sheikh. Limitarsi a parlare di fallimento o di successo di una conferenza di tale portata e complessità è una tentazione che porta ad una interpretazione spesso fuorviante anche se comoda dal punto di vista giornalistico.

Con oltre 33000 persone accreditate la COP27 si colloca al secondo posto dopo quella di Glasgow dello scorso anno per numero di partecipanti. Cresce la partecipazione dei Paesi africani, come era ovvio attendersi, e spicca come la più numerosa delegazione quella degli Emirati Arabi Uniti, che ospiterà la COP28 a Dubai nel 2023. Ma il dato più stridente è quello relativo alla presenza dei lobbisti alla COP27 in continua crescita e salita a ben 636 per quelli che rappresentano le industrie petrolifere e del gas, che di fatto costituisce il secondo gruppo più nutrito tra le delegazioni presenti a Sharm El-Sheikh dipingendo un quadro non certo promettente rispetto all’andamento dei negoziati.

L’emergenza climatica, riassunta in un elenco quasi difficile da tenere aggiornato di eventi meteorologici estremi osservati tra ondate di calore, siccità e alluvioni in tutto il mondo, dovrebbe spingere la comunità internazionale verso azioni decisamente più ambiziose mentre nel frattempo i climatologi non smettono di ricordarci che siamo ormai prossimi a soglie di aumento delle temperature che potrebbero portarci a conseguenze irreversibili specie per quanto riguarda innalzamento dei mari, fusione dei ghiacci e perdita di biodiversità.

Il contesto geopolitico si trova profondamente turbato dalla crisi dovuta prima alla pandemia e ora dal conflitto in Ucraina senza tra l’altro dimenticare altre aree del pianeta sconvolte da gravi conflitti anche se molto meno coperti dall’attenzione dei media.

Con queste premesse si è svolta la COP27 che lasciavano ben poco spazio all’ottimismo all’inizio dei negoziati. Dopo due settimane di lavoro le conclusioni della Conferenza sono riassunte da una serie di decisioni adottate e presentate in una sessantina di documenti tra i quali spicca il Sharm el-Sheikh Implementation Plan che ne rappresenta il quadro di riferimento. Si tratta di documenti che racchiudono in sé tatticismi e tecnicismi che ruotano sul significato di ogni singola parola mai casuale e che sono il frutto spesso di lunghissime trattative e compromessi tra Paesi o blocchi di Paesi.

La portata complessiva di queste decisioni richiede del tempo per essere analizzata in dettaglio ma è già possibile fornire una prima valutazione soffermandosi in particolare sull’Implementation Plan. Lo facciamo provando ad immaginare un bicchiere pieno a metà e a descrivere ciò che è emerso di positivo, che ci fa vedere il bicchiere mezzo pieno, e ciò invece che è emerso come negativo, che ce lo fa vedere mezzo vuoto.

Il bicchiere mezzo pieno

Il risultato più importante, che potrebbe essere definito storico, è la creazione di un Fondo sulle Perdite e i Danni cioè per gli impatti prodotti dai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo e più vulnerabili. Si tratta di un grande successo frutto della spinta della coalizione dei Paesi emergenti del Gruppo G77 e di un importante lavoro dietro le quinte della Cina.

Si prevede che il fondo possa diventare operativo entro la COP29 e serviranno altre tornate negoziali per definire il meccanismo di finanziamento e di distribuzione delle risorse.

La decisione è senza dubbio storica per gli Stati più vulnerabili, ma la novità è di rilievo dal punto di vista politico perché l’accordo stabilisce infatti il riconoscimento di uno dei principi che fondano il concetto di giustizia climatica: chi meno ha contribuito a produrre l’emergenza climatica ed è costretto a pagare il maggior prezzo a causa degli impatti climatici, ha diritto ad essere compensato e risarcito da chi ha responsabilità storiche maggiori, oltre che più mezzi sia finanziari che tecnologici. In difficoltà si sono trovati sia gli Stati Uniti che l’Europa che ha cercato di mediare e soprattutto di creare le condizioni perché la Cina non potesse più tenere il piede in due scarpe: se pretende di essere considerata una grande potenza dovrà anch’essa fare la sua parte e contribuire ai finanziamenti del fondo.

Un secondo elemento positivo, in materia di adattamento ai cambiamenti climatici, riguarda la conferma dell’impegno per l’estensione a tutti i Paesi di sistemi di allertamento precoce per proteggere le popolazioni da eventi meteorologici estremi attraverso un programma di investimenti mirati iniziali di 3,1 miliardi di dollari tra il 2023 e il 2027.

Un terzo importante risultato, questa volta in materia di finanza, riguarda il richiamo alla necessità di una riforma delle Banche di Sviluppo Multilaterali (MDBs), come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, chiamate nei prossimi anni ad “allineare e aumentare i finanziamenti, garantire un accesso semplificato e a mobilitare finanziamenti per il clima provenienti da varie fonti”. Si prospettano anni molto complessi ma la trasformazione del sistema finanziario potrebbe veicolare finalmente le necessarie e ingenti risorse richieste per una svolta reale nella decarbonizzazione globale.

Il bicchiere mezzo vuoto

Le note più dolenti arrivano sul fronte della mitigazione, cioè degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra. Si è mantenuto vivo, cosa non scontata fino all’ultimo, l’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature globali entro +1,5°C rispetto all’era pre-industriale (siamo già a +1,1°C) e si riconosce la necessità di una riduzione delle emissioni del 43% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019. Ma la COP27 doveva essere la COP dell’implementazione con l’impegno preso a Glasgow lo scorso anno di rivedere gli Impegno Nazionali volontari di riduzione delle emissioni di gas serra (NDCs) perché fossero in linea o quantomeno con una traiettoria compatibile con lo scenario +1,5°C. Pochi Paesi hanno tuttavia rinnovato i propri impegni e tutto è rimandato al 2023. Nessun riferimento nel testo al picco emissivo globale da raggiungere entro il 2025, come suggerito dall’IPCC, e nessun passo avanti sull’uscita definitiva dai combustibili fossili (“phase out”) mentre rimane un timido phase down, uscita graduale, dal carbone.

A parte quanto riportato dai documenti ufficiali, che andranno approfonditamente analizzati, rimangono aperte diverse problematiche come ad esempio la questione dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori, dei diritti delle donne, dei diritti delle popolazioni indigene, tematiche trasversali e fondamentali che rendono inutile qualunque politica per il clima se non tenute in debita considerazione.

“Non c’è giustizia climatica senza i diritti umani”: questo è il forte richiamo della Dichiarazione dei popoli alla COP27 sottoscritta dalle principali organizzazioni non governative (ONG) ammesse come osservatori della Conferenza delle Parti (COP) e riunite in gruppi di interesse, le cosiddette “constituency”. Le ONG ambientali (ENGO), le Organizzazioni dei popoli indigeni (IPO), le ONG sindacali (TUNGO), la piattaforma delle donne e genere (WGC) e le ONG dei Bambini e dei giovani (YOUNGO) hanno sottoscritto il documento per lanciare un forte richiamo al rispetto dei diritti umani e lo ha fatto rivolgendosi ad un Paese, l’Egitto, che mantiene in carcere molti attivisti, politici ed esponenti della società civile reprimendo la liberta di espressione.

Molta strada c’è ancora da fare, il tempo disponibile è sempre meno e i prossimi mesi, non più anni, saranno cruciali per scelte che si fanno urgenti. Come ha sottolineato António Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso di apertura della COP27: “L’umanità ha una scelta: cooperare o morire. Si tratta di un Patto di Solidarietà Climatica o di un Patto di Suicidio Collettivo”.